Da Milano alle isole, in una settimana, in cerca di inedite drammaturgie e attraverso quelle “città fuori dalle città” che sono terre natali di poesia e poeti, ma, certamente, non le più celebri. Ecco il Festival ExPolis dal 18 al 25 maggio.
Prima tappa, Livorno.
Molti artisti hanno omaggiato Piero Ciampi per essere stato “l’artista più irriverente della canzone d’autore italiana”: Gino Paoli ne ha portato in tournée il repertorio, Nada lo ha divulgato negli anni ‘80, La Crus e Baustelle, e oggi Dente, lo hanno avvicinato alle nuove generazioni.
“Mi sono arreso a un nano” è invece un omaggio teatrale, firmato e interpretato da Massimiliano Loizzi (Mercanti di Storie), e un monologo che non ricorda l’immagine del cantautore; piuttosto, la rievoca dalle parole stesse di Ciampi, e la fa riapparire. Ed è ironico, se non tragico, pensare che, da vivo, proprio per la stessa “fama” era tralasciato e lasciato solo: di natura solitario, scortese, quasi inavvicinabile, ai concerti partecipava spesso sbronzo, o insultando la platea. Perse le donne a causa della sua sregolatezza sempre manifesta. Nonostante ciò, altrettanto famose e plateali furono le prove di amicizia nei suoi confronti.
La scena di Loizzi sa tirar fuori proprio questo della vita di Ciampi, semplicemente con la presenza sul palco di Giovanni Melucci che, muto, si muove solo per spostarsi dalla fisarmonica alle piccole tastiere; è così che accompagna Loizzi, e noi immaginiamo che sia così che gli amici di Piero Ciampi devono averlo sostenuto: osservandolo senza giudicare, stando accanto a lui o seguendolo, anche solo con lo sguardo, o nella bevuta.
Ed è così che inizia lo spettacolo: i due seduti in silenzio, si scambiano sguardi; pacifici, non chiedono altro. Lo spettacolo parla di “città fuori dalle città”, prima di tutto, letteralmente: la scrittura richiama il vagabondare di Ciampi tra i quartieri popolari di Livorno, Pisa, Milano, Parigi, anche senza cambiare impianto scenografico, e cioè, due sgabelli e una tastierina. Poi Loizzi interagisce con il pubblico, proprio giocando sulle differenze regionali e linguistiche; evidenziando ciò che ci distingue, che sia uno slang, un tic o un vestito, e mostra anche quanto è facile il giudizio dall’apparenza, e quanto sia accessibile l’errore, quella parzialità che porta a lasciare in disparte il diverso, isolare il problema, creare “città fuori dalle città”.
Seconda tappa, Palermo.
Relazioni umane e “città linguistiche”, sono gli stimoli di “Ouminicch’”, spettacolo arrivato dalla Sicilia a Milano, produzione della Compagnia del Tratto con la collaborazione di Palermo Teatro Festival, tutto in dialetto stretto.
Ma bastano la forza di Anton Giulio Pandolfo e Rosario Palazzolo a rendere universalmente comprensibile una particolare situazione siciliana: due “ouminicch”, pieni dei loro riti, santini e segni rivelatori, con due valige, una bara di legno e una porta bianca, unici arredi della stanza vuota. Si contendono la morte, inevitabile, a colpi di filastrocche. Questa in estrema sintesi la prima parte della “Trilogia dell’Impossibilità” che, con umor nero, racconta la vita.
In quest’ottica, il teatro è quell’arte che dà sfogo alle angosce della propria epoca, assumendosi così un dovere sociale. “Terapeutico” secondo Antonin Artaud, nella sua idea di un mondo malato in cui il teatro diventava uno strumento di guarigione dai sentimenti “bestiali” dell’uomo: attraverso temi ad alto impatto emotivo, e cioè la manifestazione degli stessi istinti malati, abbinati a un impianto scenico d’urto, l’artista francese voleva che lo spettacolo stravolgesse e purgasse il pubblico.
Questa teoria di “dramma crudele” si concretizzò nella scrittura de “I Cenci”, testo che la compagnia milanese Scimmie Nude mette in scena a ExPolis dopo averlo usato, nel 2010, come lavoro di restituzione dell’Atélier Scimmie Nude, una fucina per la scoperta di nuovi talenti da affiancare agli attori stabili della compagnia.
Vista la qualità del lavoro, “I Cenci” è diventato una nuova produzione extra large della compagnia, con 15 attori in scena diretti da Gaddo Bagnoli. E, come ogni volta, il lavoro delle Scimmie Nude si distingue per l’originalità data dall’evidente lavoro di regia e di gruppo, che è un marchio di squadra: sulla recitazione prima di tutto, e in particolare, sulla vocalità.
Sin dall’ingresso in scena, quando le attrici entrano bisbigliando come un gruppo di suorine, colpisce la particolarità del lavoro condotto su ogni voce, che rende l’insieme un quadro vocale pieno di colori. A tinte forti, quando poi la vicenda de “I Cenci” svela il profilo tragico, e cioè quello tratto da una storia vera, ambientata a Roma nel 1599, del Conte Cenci: un personaggio crudele, un assassino senza pentimento, un anticristo che tortura la moglie e violenta la figlia Beatrice. Una storia tragica per un tema più che sensibile, e difficile da proporre. Eppure la regia di Bagnoli permette di farlo digerire, senza reticenze o tagli, ma attraverso soluzioni sceniche funzionanti e funzionali, come la turnazione di due attrici per volta ad interpretare la coppia madre/figlia: ogni coppia con le proprie particolarità e sfumatura, ma tutte, con grande forza.