Passata “Gardenia” di Alain Platel e Frank Van Laecke – campi lunghi su languore e autoironia ‘en travesti’ – è arrivata a Fabbrica Europa l’immersione nelle proposte del Focus on Art and Science in the Performing Arts.
Il progetto, avviato nel 2009, è stato protagonista del primo weekend di festival, in cui si sono susseguiti i lavori di Vincenzo Carta e di Muta Imago, e la presentazione del volume “Prometeo” (a cura di Petro Gaglianò e Paolo Ruffini) che raccoglie testimonianze dei dodici artisti/compagnie selezionati, conversazioni, saggi critici sull’interazione tra tecnologie e arte nella produzione contemporanea. D’altra parte il ‘trasferimento tecnologico’ dalle ricerche scientifiche all’esperienza artistica non è fenomeno relativo agli ultimi decenni, come ricorda Gaglianò nelle sue pagine, rintracciando l’origine del rapporto nella necessità comune all’arte e alla scienza di andare oltre il già noto, incrinando certezze e regole prestabilite.
Facile intuire la molteplicità di direzioni offerte da questo binomio e la differenza tra l’approccio di Carta e quello dei Muta Imago. Il primo si rivolge alle neuroscienze, per creare una connessione oggettiva tra attività cerebrale e azione scenica, nella performance non a caso intitolata “Gnosis #1”, realizzata con il contributo del compositore multimediale Ongakuaw (alias Andrew Ferrara).
Visto l’interesse di Carta per i fenomeni ritualistici e la trance, al centro del rapporto tra corpo e tecnologia è il passaggio fra stati di coscienza diversi, indotti dall’azione fisica. Sulla testa dei danzatori una fascia di elettrodi rileva le onde elettriche del cervello relative a quattro stati: concentrazione, frustrazione, meditazione, eccitazione. Delle interfacce hardware collegate decodificano le onde corrispondenti attivando un’emissione sonora – diversa per ciascun danzatore – e luci, di colore variabile a seconda degli stati emotivi.
Per manipolare suoni e fonti luminose è necessario quindi controllare e variare l’attività cerebrale: i danzatori sono fonte essi stessi degli effetti, il movimento diventa lo strumento per stimolare/attivare/mantenere l’una o l’altra dimensione interiore, ed è vincolato ai passaggi tra di esse, senza i quali è impossibile comandare sonorità e illuminazione durante la performance. Per questo la coreografia risulta composta da una serie limitata di gesti e azioni fisiche, relativi ai parametri emozionali prescelti.
Nonostante l’applicazione delle scoperte scientifiche sul cervello sia un orizzonte affascinante e potenzialmente fecondo per la creazione artistica, l’indagine intrapresa da Vincenzo Carta sembra però mancare sia per risultato estetico che per scelta metodologica. Durante la performance la connessione tra stato emotivo-gesto-suono appena spiegata non è evidente, e lo spettatore si trova ad assistere a una sequenza di suoni (ripetitivi), passi e immobilità sconnessi tra loro.
Dopo aver avviato il software, ciascuno dalla propria postazione pc disposta ai quattro angoli della scena, i danzatori compiono alcuni movimenti elementari come l’osservazione della mano o l’alzarsi di un braccio, spostamenti di peso nello spazio vuoto, mentre luci e suoni concreti come un fischio o un basso ronzio variano senza soluzione di continuità. L’esperimento così risulta accessibile solo a coloro che lo agiscono, e non produce alcun riflesso sulla percezione dello spettatore. Il problema è che l’esercizio costante in cui sono impegnati i performer non produce segni sufficienti a far seguire il sistema di azione/reazione, non si esplica nella costruzione di atmosfere, discorsi emotivi che, nati sulla scena, si insediano in chi guarda. Ciò che, all’opposto, l’esercizio dimostra è che il gesto compiuto in uno stato emotivo ‘reale’ del performer non comunica di per sé tale stato all’osservatore.
È qui il limite metodologico in cui incorre Carta, quasi un fraintendimento sul rapporto tra verità interiore e ‘verità’ della performance, nel momento in cui la tecnologia risponde alla descrizione di intenzioni/stati reali piuttosto che intervenire nella messa in forma di essi per la ri-creazione scenica.
Su altri binari si muovono i Muta Imago, elaborando una versione site specific di “Displace #1 La rabbia Rossa” per la sala Alcatraz della Stazione Leopolda. L’involucro post-industriale – alte pareti e pilastri di cemento grezzo – è un set ideale per il progetto che trasla lo sgretolamento e la rovina dello spazio in metafora del crollo della civiltà, nell’atemporalità di una waste land dove convivono l’antica aria lirica e gli abiti da personaggi Manga.
L’inizio sfrutta la verticalità della struttura: mentre risuona il canto, ombre e fasci di luce svelano una presenza femminile (fantasma o superstite?) che si aggira sui corridoi sovrastanti la scena. Ma la caduta di pezzi dal soffitto, tra polvere e boati amplificati, riporta lo sguardo verso il suolo: qui distinguiamo corpi viventi prima strisciare poi correre tra le macerie, finché l’incrocio con alternati spot luminosi non ne rivela la natura femminile. Ritroviamo così gli elementi fondanti del lavoro visto da Klp a Romaeuropa 2010: la somiglianza tra le performer, l’esposizione dei loro sguardi e respiri convulsi, l’effetto di segmentazione del movimento grazie ai flash a ritmo alternato che catturano i corpi in diversi punti di una medesima traiettoria.
Un’atona voce off ci parla di morti da seppellire, di attacchi e fine della città; l’azione accelera sulla griglia di luce, la rabbia esplode improvvisa: una delle ragazze ci fronteggia, ripete un monito minaccioso – “Remember me” – mentre la voce si fa sempre più distorta e amplificata, e il rosso dilagante dal fondale le incornicia lo sguardo fisso e stravolto.
L’apice della performance si condensa in quest’urlo, dove segno acustico-visivo e corpo in scena si compenetrano dando vita a un’unica deflagrazione emotiva. Eppure la costruzione dei Muta Imago sembra non mettere in discussione le certezze della propria formula, ricorrendo a meccanismi come la camminata costretta nello spazio, l’esasperazione fisica delle frustrate rimbombanti al suolo che, oltre l’apparenza dell’effetto, non arrivano a minare l’intimo dello spettatore.
A concludere il ciclo dedicato al Focus sono i Santasangre con “Bestiale Improvviso“, presentato in un allestimento ulteriormente diverso da quello visto poche settimane fa nella rassegna Istantanee al Kollatino Underground.
Diffusioni luminose e frequenze sonore costruiscono una dimensione sempre più immersiva, trasformando il bianco della scatola scenica trapezioidale – membrana, fotosfera, spazio dell’accelerazione atomica – fino a farci sentire irresistibilmente attratti nel vortice di particelle, testimoni catapultati all’interno della materia nel processo di fusione nucleare.
Dopo circa venti minuti, l’ingresso delle tre performer segna una momentanea cesura: se l’apparizione potrebbe essere più calibrata, la coreografia di Cristina Rizzo riesce a tenere in bilico le presenze tra forma antropomorfa e spasmi animaleschi, con un lavoro fisico di scomposizione estrema degli arti superiori.
Al gruppo romano e allo spazio del Kollatino Underground Klp dedicherà la prossima settimana un approfondimento: per ora ci limitiamo a osservare come gli esperimenti dei Santasangre si muovono nell’ambito di un’indagine che affronta il rapporto tra arte e scienza superando la dicotomia natura-antinatura, mettendo al centro la materia-corpo e la percezione.
Un orizzonte complesso che le riflessioni promosse dal Focus, pur nella differenza delle poetiche, indicano come terreno d’esplorazione, nel momento in cui scoperta scientifica e strumento tecnologico consentono di rimodulare i rapporti tra fisiologia del corpo e movimento, tra costruzione scenica e sensi dello spettatore, dando vita a una visione sempre più ‘estesa’.