Sopra Rimini, in un luogo incantevole tra i boschi, esiste un importante presidio teatrale che da anni costruisce progetti e propone importanti percorsi di formazione. Si tratta de L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino. Abbiamo incontrato il direttore Fabio Biondi per approfondire insieme a lui, in questo particolare difficile momento, la storia e gli intenti.
L’Arboreto ha ormai più di vent’anni. Raccontaci da quali esigenze era nato.
L’Arboreto di Mondaino è nato nel 1998 con la precisa volontà di riflettere e agire sui processi di studio, ricerca, formazione e composizione di nuove opere.
Fin dall’inizio della nostra esperienza, ci siamo immaginati come luogo di residenza per favorire i processi di creazione contemporanea e accompagnare gli artisti sulla soglia della produzione. Volevamo e vogliamo ancora lavorare sul processo e non sulla produzione. Comprendere le funzioni vitali delle scelte artistiche e umane che intercorrono fra l’ideazione e la produzione di un’opera. Riflettere sul valore e la qualità del processo che conduce, e in alcuni casi condiziona, la produzione di uno spettacolo. Siamo convinti che il percorso del processo creativo e le relative produzioni di senso che lo accompagnano siano importanti tanto quanto la produzione e la circolazione di uno spettacolo. All’inizio dei percorsi professionali delle nuove generazioni e nelle relazioni fra maestri e margherite, il tempo e lo spazio dedicati allo studio e alla sperimentazione dovrebbero essere sostenuti, in particolare, dalle strutture di residenza che al loro interno contengono i principi attivi per connettere ricerca e formazione.
Nel 1998 l’Arboreto di Mondaino è nato da questa esigenza culturale e dall’ascolto del paesaggio naturale che ha accolto e “strutturato” la nostra prima intuizione.
Come, negli anni, si è sviluppato e ramificato?
Per alcuni anni ci siamo concentrati molto sulla nostra “solitarietà” e sulla consapevolezza di aver scelto di abitare un luogo marginale, caratterizzato anche dal sentimento del limite.
Poi, piano piano, abbiamo compreso le nostre potenzialità espressive e il ruolo che potevano giocare a favore degli artisti, dalla parte degli artisti, all’interno dei sistemi teatrali regionali, nazionali e dopo anche internazionale.
Nei respiri successivi abbiamo iniziato a costruire relazioni profonde con artisti, operatori, studiosi e critici; a proporre e ricevere proposte di collaborazione con diverse e qualificate strutture che da anni lavorano per il rinnovamento dei dispositivi di ricerca, formazione e produzione delle arti sceniche contemporanee. Così sono nate tante e diverse progettualità di rete per il teatro e la danza, che ora rappresentano la nostra linfa vitale e ci fanno comprendere anche la bellezza e la vitalità di lavorare insieme nell’unità delle differenze.
Di cosa si deve nutrire una residenza?
I luoghi e progetti di residenza si compongono di due anime: le relazioni con gli artisti e tutti gli “attori attivi” delle arti sceniche contemporanee (operatori, tecnici, docenti, critici); le relazioni con i cittadini e gli spettatori, le comunità geografiche di riferimento e le comunità creative che bussano alla porta per capire che cosa sta accadendo dentro gli spazi di lavoro e di convivio delle residenze.
L’insieme di queste relazioni, dentro e fuori le residenze, oltre le mura e i giardini delle residenze, caratterizzano la specificità dei luoghi di residenza che per crescere hanno bisogno di queste ramificazioni e degli intrecci fecondi con le piante e le erbacce che crescono lungo i percorsi, i sentieri abbandonati e le vie maestre.
Come scegliete i progetti da sostenere?
Principalmente scegliamo i progetti di residenza e formazione per scelta diretta, frutto di relazioni e confronti approfonditi con gli artisti e gli artigiani del pensiero che si rinnovano nel tempo.
Abbiamo sempre preferito esporci e assumere la responsabilità delle nostre scelte artistiche, politiche e culturali, come il rischio d’impresa che ha caratterizzano la nascita dell’Arboreto.
Quando decidiamo di proporre e condividere un call, una chiamata pubblica, non lo facciamo per sottrarci alla nostra (prima) responsabilità, bensì per comprendere e ricomprendere la scena del presente che cambia di continuo e assume sembianze diverse dalle nostre conoscenze.
Un luogo di residenza è di fatto un laboratorio del contemporaneo che ha la necessità di registrare e interpretare le trasformazioni del presente per immaginare il futuro.
Come vedi la situazione del teatro di ricerca in Italia?
Nel corpo a corpo con gli artisti abbiamo compreso diverse anomalie del sistema nazionale delle arti sceniche che non riesce a tutelare (in profondità) la qualità della ricerca e della sperimentazione. Per le nuove generazioni, soprattutto, e per chi vorrebbe continuare ad esprimersi con l’ossessione di un autore che non rinuncia all’arte e all’alterità del teatro e del proprio lavoro.
Molto prima della pandemia, che ha acceso un occhio di bue sulla grave crisi della cultura e dello spettacolo dal vivo, gli artisti più giovani o ai margini del sistema teatrale più ufficiale e istituzionale (garantito?), lamentava l’assenza di una prospettiva e di esclusione (non inclusione, volontaria o per distrazione), come se la “cittadinanza teatrale” dovesse essere un privilegio di pochi. A fronte di questa presunta o reale emarginazione, ci sono delle effervescenti sacche di resistenza (festival, residenze, teatri di provincia, circuiti alternativi) che hanno lavorato a fondo per il rinnovamento e il riequilibrio delle forze in campo.
Se il problema vero non è la scalata del vertice o prendere posizione attorno ai poteri forti del teatro, è vero che il meccanismo perverso del riconoscimento e della visibilità ha portato (quasi tutti) a una iper-produzione di spettacoli che il libero mercato (non gli scambi fraterni) non è riuscito ad assorbire, respingendo di fatto gli artisti più intelligenti e innovativi a ritornare alle frontiere, le terre di provenienza, senza più passare dal via.
Quale strategia proporresti per il rilancio dopo l’emergenza sanitaria in corso?
Le strategie possibili possono essere diverse. Da quelle più istituzionali, che riguardano i finanziamenti pubblici (dal MiBACT ai piccoli Comuni di periferia), alle nuove politiche culturali e di socialità dei processi artistici che recuperano i divari (i baratri) territoriali, e includono davvero il valore unitario delle differenze.
Lavorare sui significati profondi e meno effimeri di composizione delle opere, comprendendo il valore del processo creativo e di conoscenza che precede la produzione.
Lavorare sui confini e le zone d’ombra che regolano naturalmente i dialoghi fra centro e periferia.
Promuovere la vitalità delle pratiche delle officine, dei laboratori e delle botteghe d’arte dove sia possibile imparare un mestiere, delle nuove e altre competenze: la trasmissione del sapere che accompagna sempre lo studio e la ricerca, le azioni e le teorie, insieme.
Quali sono i temi su cui oggi il teatro dovrebbe interrogarsi?
Recuperare il “ritardo intellettuale” sul proprio ruolo all’interno di una società che muta di continuo, e non mi riferisco solo alla pandemia. Comprendere le motivazioni che non permettono alla cultura e allo spettacolo dal vivo di essere considerati dei “beni comuni e di produzione di senso” (non voglio qui accennare ai meriti di produzione e di economia circolare che di fatto appartengono alla progettualità culturale).
Riflettere a fondo sulla necessità di comprendere il proprio ruolo (vecchio o nuovo?) di “minoranza”, e allo stesso diventare attrattivi per altre minoranze (nuove maggioranze?) e tutti assieme acquisire nuove urgenze per gli artisti, gli operatori, gli amministratori, i cittadini e il pubblico. Rifiutare il carattere prevalente di “spettacolarità” a favore di “maledette ossessioni” che spingono gli uomini a non inseguire sempre e per forza (per gli altri) il consenso. Il successo e la riconoscibilità invece afferiscono senz’altro alle problematiche umane delle espressioni creative e della professione.
Sono appunti che hanno il carattere di interrogativi e si prestano per lo più a provocare un confronto, senza la presunzione di essere esaustivi.
Parliamo ora del futuro. Come pensate di ripartire? Quali i progetti in atto e quelli in divenire?
Dal 1° giugno 2020 abbiamo riaperto i “teatri chiusi” per rimettere gli artisti al centro delle scene per ripensare al proprio lavoro d’arte e a nuove opere in attesa dell’arrivo del pubblico.
I luoghi e i progetti di residenza hanno svolto davvero un ruolo importante per mantenere in vita i dialoghi con gli artisti, riconoscendo loro anche delle economie dirette, che in questo periodo drammatico hanno assunto un significato importante, seppur sempre ridotto.
Continueremo a indagare il valore del processo creativo, delle residenze che da diversi anni svolgono una “funzione pubblica” importante per sostenere gli artisti e per sperimentare nuove modalità organizzative con i territori e le comunità di riferimento.
Continueremo ad occuparci di “presidi culturali” e a scommettere sul nuovo che avanza, perché la nostra principale vocazione è quella di modificare il presente per immaginare il futuro. I principi attivi delle residenze comprendono e coniugano la solitudine (la solitarietà) dell’atto creativo degli artisti, con il lavorio quotidiano delle comunità, che includono differenti punti di osservazione fra l’io e il noi.