Mentre lo aspetto, lo spettacolo ripassa letteralmente davanti ai miei occhi. Pezzo dopo pezzo l’allestimento viene smontato e caricato su tir. Casse di oggetti, costumi, sedie, pannelli, luci e perfino un’auto lasciano il teatro per trovare un proprio spazio di viaggio.
La direzione è Berlino. Lì debutterà in prima assoluta, domani sera, alla Volksbühne.
A Torino, invece, sarà in prima nazionale dal 6 all’8 febbraio.
Fabrizio Arcuri saluta un po’ di gente, fa un breve briefing con parte del cast e poi mi raggiunge. Possiamo finalmente chiacchierare del progetto appena visto in anteprima alla Cavallerizza, “Fatzer Fragment/Getting Lost Faster” di Bertolt Brecht.
Lui, Arcuri, Berlino la raggiungerà l’indomani in aereo, insieme agli attori. Intanto, prima di salire nei camerini, ci soffermiamo ancora un attimo davanti all’enorme tir che monopolizza la visuale di fronte al teatro.
In una Torino particolarmente fredda (ma Berlino forse sarà ancor più pungente) non riesco a non immaginare quale eccitante effetto possa provare nell’osservare questo gran lavorìo che ci passa di fronte.
Il regista dell’Accademia degli Artefatti (e co-direttore artistico di alcune rassegne/stagioni) torna a Brecht scegliendo un’opera incompiuta, un testo frammentario a cui l’autore lavorò per quattro anni producendo 500 pagine di appunti e note, ma definendolo poi “irrappresentabile”.
Ci pensò Heiner Müller a darne una versione per la scena, nel 1978.
Ma Arcuri non è ripartito da lì; è tornato più indietro.
Il grande argomento del Fatzer è come opporsi all’ingiustizia e allo sfruttamento senza essere risucchiati nel circolo della violenza. O forse questa è necessaria? Qual è la via per una nuova società, sensibile ai problemi della lotta di classe e della repressione? In sintesi, come riuscire a mutare il mondo e i suoi rapporti di potere? Dove e come trovare la forza per realizzare un simile progetto?
Anche oggi ci troviamo di fronte a continui fallimenti umani. Non è poi cambiato granché. Ed è proprio da questo diffuso senso di sconfitta che Arcuri è partito, in cerca di una speranza.
La drammaturgia è stata curata da Magdalena Barile con la consulenza di Milena Massalongo, che già aveva tradotto per Einaudi la versione di Müller. Come avete lavorato su tutto questo materiale?
Abbiamo iniziato un anno fa, dalle pagine originali di Brecht, e abbiamo cercato di seguire una delle sue ipotesi di scaletta. In questi 500 fogli a volte ci sono solo alcune frasi, altre dei dialoghi, in altre ancora indicazioni di come dovrebbe avvenire una scena. Spesso Brecht annotava: “Non attenersi a una scena naturalistica!”, quando poi ogni tanto la scriveva proprio una scena naturalistica; e allora ci si domandava come farla… E’ stata davvero una palestra, un laboratorio sul linguaggio.
Hai scelto artisti con cui avevi esperienze passate: dalla stessa Barile a Matteo Angius e Francesca Mazza, fino alle musiche composte ed eseguite dal vivo da Bergia e Arneodo dei Marlene Kuntz. Peraltro scelte tutte azzeccate. Una sorta di impronta stilistica o la sicurezza di rapporti già collaudati?
Ho scelto gli attori in base al tipo di messa in scena che stavamo ipotizzando. Ad esempio ho scelto Francesca perché sapevo avrebbe retto la funzione del coro, che è sempre un po’ difficile perché didattica e retorica; e sapevo che lei sarebbe stata in grado di sciogliere dei nodi.
Per Fatzer mi serviva un giovane, un adolescente. Ma avevo 50 giorni di prove, che è un tempo davvero ristretto per rischiare, e ho così attinto a figure che conoscevo e mi pareva potessero corrispondere al tipo di disegno a cui avevo cominciato a pensare.
Passiamo proprio a Fatzer come figura del dissenziente, il cui compito è mettere in discussione la società. Oggi chi potrebbe rappresentare Fatzer?
Oggi la questione è diventata più complessa. La figura del Fatzer, così come quella dell’antagonista Koch, o l’ideologo e colui che mette in atto l’ideologia, penso siano esperienze molto legate agli anni ’70, più riconducibili a Baader-Meinhof, alle Brigate Rosse…
E in effetti nello spettacolo riesci ad evocare quell’atmosfera da resistenza armata, che rimanda inevitabilmente al terrorismo. Ma la “rivoluzione contemporanea” non esiste proprio?
Penso che oggi si rimanga abbastanza disarmati di fronte alla difficoltà di individuare realmente il nemico. Siamo completamente su un altro piano, che è quello economico, e non c’è più nemmeno l’orpello della guerra.
Quindi, a maggior ragione, occorre rispolverare la nozione di teatro epico di Brecht, per un teatro che non ‘intenerisca’ il pubblico con le emozioni ma sia in grado di passare nozioni che lo portino verso la consapevolezza. Il tuo è un teatro epico?
E’ fondamentale che il teatro si sforzi di trovare una funzione in una società come quella di oggi. Nell’andare a teatro è fondamentale sentirsi coinvolti in una vicenda che ci appartiene, e che non sia la narrazione di una storia che appartiene a qualcun altro, un mero godimento estetico. Se il teatro continua ad essere un passatempo non ha più ragione d’essere in un tempo come questo, in cui i passatempi sono molto più rapidi ed efficaci. Lo sforzo che si chiede ad uno spettatore è enorme, ed è per questo che il teatro ci deve riguardare.
Arcuri e Brecht. Continuerà questo sodalizio o l’hai già sviscerato abbastanza e stai virando altrove?
Brecht lo abbiamo affrontato un po’ di petto e portato all’interno dell’Accademia degli Artefatti come modalità attoriale una decina d’anni fa, quando iniziammo a fare “Tre pezzi facili” di Martin Crimp. Ed è da Brecht che ci è venuta una riflessione intorno ad un atteggiamento attoriale che non fosse legato all’emotività, ossia né a un percorso emotivo e catartico da far fare allo spettatore, né all’attore: deve essere il pensiero il filo comune che crea una complicità fra attore e spettatore.
A distanza di tempo, questo testo, che è incompiuto e tratta con tanti anni d’anticipo una serie di tematiche non ancora risolte, ci è sembrato da subito un modo interessante per inserire dentro a Brecht tutto ciò che avevamo pensato su di lui in questi anni.
Per quanto mi riguarda il rapporto con la scrittura di Brecht si conclude qui per il momento, perché è un po’ la chiusura di un cerchio.
E proseguirai con…
Fassbinder e Dennis Kelly. Anche se, dopo tutto questo percorso, quello che mi piacerebbe fare oggi è l’“Hamletmachine” di Heiner Müller, perché è l’opera che ha messo insieme subito dopo il periodo di lavoro sul Fatzer, ed è come una summa.
Siete in partenza per la Germania. Questo progetto di collaborazione biennale ha gemellato lo Stabile di Torino con la Volksbühne, sfociando sia nella tua produzione che in quella di René Pollesch “Kill your darlings”, al debutto stasera a Berlino e poi a Torino dal 10 al 12 febbraio. Che aria teatrale respiri, tu, in queste due città?
In generale in Europa il teatro ha un senso diverso rispetto all’Italia: è proprio una boccata d’ossigeno, perché c’è più semplicità. I teatri sono sempre pieni, l’atteggiamento nei confronti del teatro è più diretto e motivato. Quando si fa teatro in Italia la sensazione è quella di dover sempre entrare dalla porta di servizio, perché disturbi un po’, per poi uscire dalla finestra. All’estero entri ed esci dalla porta principale: quello è il motivo per cui sei lì, gli altri sono lì perché tu stai facendo quello, e ci sono un’attenzione e una propensione diversa. C’è un rapporto fra spettatore e palcoscenico che è sano, e questo indipendentamente dal fatto che uno spettacolo possa piacere o meno.
Direzioni artistiche di Prospettiva a Torino, Teatro della Tosse a Genova, Short Theatre a Roma, l’Accademia degli Artefatti… Fabrizio, non è che sei a rischio di sovraesposizione?
Che te devo dì?! In un Paese che non riconosce la meritocrazia, per fortuna ogni tanto capita: mi sono state riconosciute delle cose.
Soprattutto le direzioni artistiche di carattere organizzativo sono molto faticose perché sono anni in cui non ci sono soldi, e se non riempi i teatri te lo fanno subito notare. Però penso che se vogliamo cambiare le cose alla radice questo lavoro sia un dovere. In questo momento, per un artista, cercare di cambiare la visione del teatro e instaurare un rapporto più proficuo ed interessante con lo spettatore è più un dovere che un diritto. Non è tanto un premio, quanto una responsabilità.
Quindi non ti bruci?
No, non credo. E poi non ho quasi mai niente da perdere.
che bella intervista, direttore! Non vedo l’ora di vedere lo spettacolo.