lacasadargilla sceglie il romanzo di Bradbury con l’adattamento sci-fi firmato da Roberto Scarpetti
(Im)prevedibile l’effetto di (ri?)leggere “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury con l’idea di calarlo in questo presente lacerato da timori verso il futuro. Il destino dei romanzi distopici o genericamente fantascientifici talvolta descrive una curva: se nel momento in cui sono stati scritti devono parlare direttamente al presente rappresentandone l’estrema conseguenza, col passare degli anni la vita vera guadagna nei loro confronti il vantaggio dell’esistente, dell’alternativa che si realizza e si distacca, sia essa più o meno estrema: e il romanzo allora rimane una testimonianza di come ci eravamo immaginati il presente che ci troviamo a vivere.
Arriva poi un momento in cui, con una torsione sorprendente, quei temi e quello sguardo si caricano di una riconquistata attualità, a dispetto dell’innocuo vintage che sembra averli coperti come uno strato di polvere désengagé. Tornano allora a brillare, quei racconti, con una mancanza di delicatezza, un approccio ai nostri occhi naif che anche quando è goffo si fa illuminante.
Per limitarsi ai temi del libro, oltre all’arcinota battaglia nient’affatto new age sulla difesa della letteratura e della complessità, bisognose di quei tempi lenti incompatibili con i ritmi della contemporaneità, il libro di Bradbury non solo affronta la questione della tecnologia come elemento capace di entrare nell’essenza antropologica della civiltà, ma la pone sul vetrino del sistema educativo (“La scuola è sempre più breve, la disciplina più rilassata […] La vita è una cosa concreta: quello che conta è il lavoro, e il divertimento dopo il lavoro”), problematizza la questione della cultura come strumento di potere e di conflitto psicosociale (“Finalmente potete leggere i classici: mettetevi alla pari con i vostri vicini!”) e i sistemi di appiattimento della stessa come strumenti di disinnesco della critica.
Non si possono non leggere certi passi senza pensare al potere anestetico dell’impoverimento di prospettiva storica, come quando il protagonista Montag, disperato, fa alla moglie: “Ogni tanto dobbiamo essere turbati, tanto per cambiare. Da quanto tempo non sei turbata davvero? Per qualcosa d’importante, qualcosa che conta nella realtà?”, e insieme alla pratica degli allarmi e delle emergenze continue, antidoti a ogni turbamento capace di sfociare con opportune conseguenze nella lotta.
D’altronde il “diritto di compiere azioni basate su quello che impariamo” è una delle tre cose fondamentali di cui gli uomini hanno bisogno, secondo quanto il personaggio di Faber dichiara al neofita della cultura, Montag.
Ma in “Fahrenheit 451” c’è anche l’inquietante prefigurazione dell’ottundimento da scrolling (“Clicca e guarda, occhio e foto, scorri qui, scorri là, ritmo veloce, su, giù, dentro, fuori, perché, come, chi, cosa, dove, eh?”), da bolla social e realtà virtuale (si hanno rapporti solo con le “famiglie” che imperversano negli schermi casalinghi), da analfabetismo funzionale (“Voglio che lei m’insegni a capire quello che leggo”, chiede sempre Montag a Faber) e, scolpito con vibrante inopportunità, il tema del rispetto delle minoranza, usato dal Sistema del mondo bradburiano a pretesto per una generale sterilizzazione della cultura, una “cancel culture” ante litteram. Né manca l’insofferenza per la fiammeggiante ingenuità del parvenu della conoscenza (come non pensare alle scalcinate conoscenze raggranellate oggi online, usate come manganelli?) e una rapida chiosa sul tema della derubricazione di pratiche quali divorzio e aborto a semplice azioni amministrative che, se certo mostra la corda degli anni, sollecita a una riflessione storica sulla questione dei diritti della persona.
Un minimo excursus all’interno di un testo così esplosivo e vivo è indispensabile per leggere il senso dell’operazione messa in campo all’interno di If/Invasioni dal futuro, la rassegna organizzata ogni anno da lacasadargilla di Lisa Ferlazzo Natoli al Teatro India, dove proprio il libro in questione è stato il punto culminante di una serie di giornate legate al titolo “Dark ages”, in cui non sono mancati laboratori (con Roberto Scarpetti, Fabio Condemi, Pasquale Citera), conferenze, installazioni, progetti radiofonici (Silvio Impegnoso) e di condivisione di libri.
Il formato scelto per la traduzione scenica, lo stesso usato per la prima parte di “L’ombra dello scorpione” di Stephen King, opera di Collettivo Fontana e Caterina Dazzi, è stato quello del melologo sci-fi, genere che unisce nel nome l’ascendente colto ottocentesco all’aggettivo caro alla serialità distopica.
Rispetto al lavoro su King, che ha dovuto fare i conti con un monstrum di oltre mille pagine, fitto di trame e personaggi, questo “Fahrenheit” si giova, come “Gli uccelli” di Du Maurier dello scorso anno, di una storia lineare e tutto sommato contenuta, accompagnata in scena da un gruppo di musicisti e da proiezioni (Maddalena Parise) su un velatino a metà profondità che cela e mostra gli strumentisti e che consente, attraverso un ingresso centrale e due laterali, il passaggio degli attori al proscenio.
Il lavoro sul testo compiuto da Roberto Scarpetti è di fedeltà all’originale, tanto nei temi quanto nella trama, ed è parso spinto da una sincera necessità di comunicare l’inesausta potenza del libro: minimi, quasi dei vezzi, sono gli adattamenti (il “nastro” è sostituito con il “digitale”, il 2022 con il 2023); i tagli funzionali alla fruizione in una sala settembrina, peraltro spinta a temperature quasi insopportabili per la mancanza dell’aria condizionata: si elimina parte della lunga cronaca del viaggio di Montag verso la colonia e si asciuga qualche episodio.
Particolarmente problematica si presentava la resa in voce dei fondamentali passi “politici” del libro, il lungo monologo del capo-pompiere Beatty, personaggio di un’ambiguità non risolvibile, straziante, che la versione scenica non scioglie né banalizza, e quella dell’intellettuale Faber. Ma l’impresa dell’alleggerimento senza perdite sostanziali è riuscita. Così come irreprensibile dal punto di vista dell’economia di gestione risulta la scelta di volgere l’intera narrazione in prima persona, centrandola sulla fibrillante prestazione attoriale di Emiliano Masala, stridente in una sofferenza aggrovigliata e incontenibile (tuttavia contenuta sempre, mai scompostamente sfogata), sempre crescente, a stento sciolta nel finale, e lo studio della presenza in scena della figura di Clarisse McClellan (Giulia Mazzarini), la cui aleggiante persistenza, assai più significativa di quella di altre figure secondarie, di cui si poteva forse meglio snellire il peso scenico, rende tangibile l’ossessione di Montag non tanto per lei, quanto per la disarmante verità di cui si è fatta portatrice e attraverso la quale ha contribuito a ridestarlo.
Possibile forse qualche aggiustamento nella drammaturgia musicale, che delega all’affascinante timbro del vibrafono un po’ troppo della ricerca di un fertile rapporto con il testo (notevolissimo invece nella partitura del lavoro su King, opera del polistrumentista Andrea Veneri, che riesce, senza mai rifugiarsi nell’afasia, ora a squarciare i silenzi ora a scomparire tra le parole) e che, nel finale, patisce qualche incomprensione con il pianoforte; ma l’operazione, risolta nel nobile servizio di dare una voce udibile a un libro che ha sempre tanto da dirci, regala quell’ineffabile piacere di stare ad ascoltare una storia e, come chiedeva lo stesso Montag, la sofferenza di essere turbati per qualcosa di reale.
FAHRENHEIT 451
a cura di lacasadargilla
regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
adattamenti Roberto Scarpetti
drammaturgia musicale Gianluca Ruggeri
ambienti visivi Maddalena Parise costumi Camilla Carè
drammaturgia delle luci Omar Scala
disegno sonoro Pasquale Citera
con Arianna Gaudio, Silvio Impegnoso, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Giulia Mazzarino, Alice Palazzi, Stefano Scialanga
percussioni Gianluca Ruggeri pianoforte Ivano Guagnelli, percussioni /el. devices Gianfranco Vozza, percussioni Carol Di Vito
aiuto regia e coordinamento Matteo Finamore, Martina Massaro, Caterina Piotti, Francesco Cecchi Aglietti
durata: 1h 10′
applausi del pubblico: 2′
Visto a Roma, Teatro India, il 3 settembre 2023