Faith, Hope and Charity. L’iperrealismo di Alexander Zeldin

Ph: Maxime Bruno
Ph: Maxime Bruno

In prima nazionale a Roma grazie alla collaborazione fra Teatro di Roma e Romaeuropa Festival

Si percepiscono gli odori della cucina, il profumo di un pasto caldo e pronto da servire, ed è insolito e singolare prendere posto in platea così, dopo aver attraversato il foyer del Teatro Argentina di Roma.

In una città britannica, nella sala decadente di una comunità periferica minacciata di chiusura, una donna, Hazel, ha preparato il pranzo per i bisognosi. Fuori piove e, pochi alla volta, entrano i protagonisti, abitando quello spazio con le loro storie bordeline.
Ci sono i tavoli da aprire e sistemare; alle pareti sono appesi diversi disegni realizzati da bambini che, con il passare del tempo, sono già diventati adulti. C’è un coro che Mason, un volontario in cerca di un nuovo inizio, sta cercando di avviare. I gesti semplici, i silenzi duraturi ci danno l’accesso a una realtà nascosta.
Alexander Zeldin e i suoi attori, passo dopo passo in modo quasi impercettibile, svelano dettagli di vite ordinarie mentre ognuno affronta la propria apocalisse personale.

Dopo “Beyond caring” e “Love”, il nuovo spettacolo di Alexander Zeldin “Faith, Hope and Charity” è un’altra esperienza teatrale immersiva senza compromessi, che colpisce dritto al cuore dei nostri tempi difficili. Zeldin ci porta nella società dell’austerità e dei tagli, dei servizi con risorse insufficienti e di un sistema di assistenza sociale morente.
Charles Peguy, scrittore e poeta francese vissuto tra Ottocento e Novecento, definì le virtù teologali come tre sorelle: la Fede è una Sposa fedele, la Carità è una Madre infine la Speranza è una bambina da nulla. Il titolo è molto probabilmente l’unico riferimento mistico dell’opera. Tutto il resto è grigiore, miseria umana cruda e monotona, iperrealistica; un mondo privo di fascino, ricreato con sincerità sul palcoscenico del teatro, dentro il quale trascinare lo spettatore.

Hazel e Mason superano le proprie difficoltà e fanno del loro meglio per sostenere tutte le persone di cui si occupano; si prendono in carico le complessità della loro comunità come fossero le proprie. Oltre un’ora e mezza di dramma corale, in cui ogni personaggio ha tempo e spazio per trasmettere la propria storia, la propria disperazione e, soprattutto, una minuscola particella di speranza. Ognuno di loro, in fondo, è stato, è o sarà una persona che si aggrappa alla speranza quando i muri intorno si stanno sgretolando; è tutto ciò che rimane da fare.

E lì, in quella micro società, le persone maggiormente colpite dai tagli all’assistenza devono raccogliere i pezzi e sostenersi a vicenda. Hazel, per esempio: di lei sappiamo quel poco che vediamo. Distribuisce cibo gratuitamente nella sala della comunità, si attiva per il coro e si assume il ruolo di terapista-confidente di tutti. Ma è schiacciata dai conflitti interiori, con i quali l’attrice Cecilia Noble stimola e stuzzica gli spettatori, attraverso piccole smorfie e momenti in cui sta per crollare o trattiene il pianto. Accetta la croce di essere sovraccaricata dalla ribelle e ansiosa Beth, la quale lotta per riconquistare sua figlia dai servizi sociali. Viene messa in mezzo alle contese tra Bernard ed Anthony, che litigano su chi soffre di più. Ed è sfiancata dalle preoccupazioni del maestro del coro Mason, appena uscito di prigione.
Come ognuno di noi, non ha o ha troppo poco tempo per sé stessa.

Zeldin potrebbe sembrare la risposta teatrale al cinema di Ken Loach, con il dito premuto sul pulsante del rallentatore, ma forse è più vicino ai registi del neorealismo italiano. Come loro, Zeldin ha un autentico approccio estetico e desidera immortalare la vita così com’è.

Il suo stile documentaristico è talmente particolareggiato che spesso sembra di stare seduti in un ristorante ad osservare la gente, se non fosse per quei momenti in cui il regista cattura la nostra attenzione mettendo in luce una serie di contraddizioni.

Lo spettacolo non fa nulla per coinvolgerci in qualche azione politica o per esprimersi contro le burocrazie che causano tale e tanta disperazione. Quello che fa Zeldin è invece creare un ambiente con uno sfondo, un paesaggio e uno schema istituzionale attorno. Mostra le persone che in quel contesto stanno lottando per vivere e cercare di migliorarlo; infine, trova un modo per trascendere la loro realtà.
Non invita nessuno ad esprimere un giudizio di valore su cosa sia la povertà. Semmai chiede al pubblico di vedere e riconoscere quelle persone, di avere compassione per loro nonostante tendano a vittimizzarsi.

Forse il teatro non arriverà al punto di cambiare il mondo, ma i momenti che Zeldin crea torneranno a tormentarci anche dopo un po’ di tempo e, forse, soltanto allora potranno aiutarci a vivere meglio. È quasi come se Zeldin lanciasse una sfida: possiamo essere abbastanza curiosi, di questo mondo, da preoccuparcene? Possiamo accantonare tutte le nostre congetture su cosa sia la lotta contro la povertà? Possiamo essere curiosi, coraggiosi, liberi, così come sono, in un certo senso, i personaggi di “Faith, Hope and Charity”? Seppur vincolati da tagliole sociali, leggi, regolamenti che brutalizzano le loro vite, nel loro mondo e nel loro gruppo hanno trovato una collaudata libertà, l’uno con l’altro. Ed è proprio questa la speranza, e la via d’uscita.

Faith, Hope and Charity
Testo e messa in scena: Alexander Zeldin
Scenografia e costumi: Natasha Jenkins
Luci: Marc Williams
Suono: Josh Anio Grigg
Movimenti: Marcin Rudy
Musiche: Laurie Blundell
Assistente alla messa in scena: Josh Seymour
Collaborazione alle luci: Breandon Ansdell

durata: 1h 35′ + intervallo
applausi del pubblico: 3′

Visto a Roma, Teatro Argentina, il 5 novembre 2022
Prima nazionale

 

 

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