Fame mia: Atir e il cibo come compensazione

Annagaia Marchioro
Annagaia Marchioro

Argomento cult degli ultimi anni, il cibo parla alla pancia dell’umanità e, anche, della comunità teatrale. Già, perché “mangiare non è mai solo mangiare”, come recitano frivoli spot di programmi televisivi di cucina. E il binomio cibo/teatro non è una novità.
Aldilà della retorica, il tema scalda gli animi per le implicazioni emotive, psicologiche, socio-culturali, economiche e politiche che comporta.

“Fame mia”, monologo di e con Annagaia Marchioro, liberamente ispirato a “Biografia della fame” della celebre Amélie Nothomb, in scena al Teatro Leonardo di Milano con la regia di Serena Sinigaglia, è un romanzo di formazione in cui, seguendo un binomio classico, il bisogno di cibo si associa al bisogno d’amore.

Gli anni Settanta e Ottanta hanno visto delinearsi una netta demarcazione tra Paesi sviluppati, in cui il consumismo equivaleva ad accrescere il tasso di colesterolo e l’obesità nella popolazione, e Paesi in via di sviluppo, caratterizzati da de- e mal-nutrizione.
Il decennio successivo, pur facendo ancora i conti con un crescente consumismo (il drammaturgo Rodrigo Garcia gli dedica il graffiante “Note di cucina” del 1992), vede la comparsa sempre più frequente, nei Paesi iper-nutriti, di casi di anoressia e bulimia, esiti di un rapporto incrinato con il cibo, sotto l’imperversare di mode alimentari che vanno a braccetto con la tirannia di canoni estetici severissimi.

Il nuovo millennio inaugura poi una nuova coscienza etica e politica. I consumatori amplificano la possibilità di scelta, e aumentano vegetariani, vegani, fruttariani, fino al caso estremo dei respiriani («Non tocchiamo cibo, ci nutriamo solo di aria»), in un dibattito che prevede implicazioni etico-politiche-filosofiche: la compagnia Frosini/Timpano, per citarne una, dedica a questi argomenti “Digerseltz” (2012) ma anche “Carne” (2016).

Annagaia Marchioro, giovane attrice e drammaturga della compagnia Atir, in “Fame mia” si misura con il tema portando in scena, in un Veneto post contemporaneo, una storia semiautobiografica su una relazione complicata con il cibo.
Espressione di una famiglia piccolo-borghese, Annagaia vive un’infanzia serena segnata dall’affetto della nonna, che si traduce, come nella migliore tradizione italica, nel rimpinzare la nipote di ogni tipo di leccornia.
A fare da contraltare ci sono una madre salutista e incline alla tristezza e un padre silenzioso ma appassionato.

In un tempo scandito da infiniti pranzi domenicali, conditi da piccole beghe, innaffiati da fiumi di alcool e farciti della tipica salacità veneta, la protagonista vive un’età felice e inconsapevole, lontana dalla coscienza di sé e del proprio corpo.

Un viaggio a New York con la famiglia e la visione del musical “Saranno Famosi” in un teatro di Broadway segnano il suo cammino nel mondo della danza, un mondo in cui la disciplina e la disarmante sincerità della maestra di ballo lanciano già i primi segnali di inadeguatezza. Ma è l’ingresso alla scuola media che vede l’esplodere di un senso di frustrazione. D’altronde l’adolescenza è il periodo dell’inadeguatezza per antonomasia. Se poi al cibo, con la sua valenza compensatoria, e a un corpo appesantito si coniuga l’insofferenza per lo sport, tutto diventa più difficile. Senza contare che accanto ai morsi della fame si fanno strada le prime lancinanti sofferenze d’amore.
Ecco allora che bisogna trovare un capro espiatorio. Il cibo, da fonte d’appagamento, diventa nemico da eliminare. Ed ecco una nuova scansione quotidiana: contare le calorie, metterle in rapporto alle proprie azioni, ridurne gradualmente l’impatto sul proprio corpo, annientare, ridurre, eliminare lo stimolo della fame.

L’incontro con l’anoressia arriva così: quando il senso di inadeguatezza prende il sopravvento, quando l’amore per sé lascia spazio ad un rapporto malato e pericoloso con il cibo. Il racconto si fa cupo, anche se i toni rimangono comici: le giornate di un’adolescente non si dividono più tra lo studio e le visite all’unica amica, ma diventano tempo da impiegare svolgendo le attività più dispendiose dal punto di vista energetico: un’iperattività patologica, accompagnata ad un regime alimentare inesistente.
L’anoressia diventa fedele compagna di vita. Sono vani i tentativi della psicanalisi. La cura è altrove, sul palcoscenico. Il teatro come mezzo per svelarsi travestendosi diventa terapia contro il male di vivere.

“Fame mia” è un monologo dalla drammaturgia compatta, lineare, a tratti fin troppo narrativa. Una storia semplice che poggia su una comicità spontanea che è ormai la cifra stilistica di Atir.
Se il riferimento letterario di Annagaia Marchioro (con Gabriele Scotti) è il romanzo di Amélie Nothomb, la fonte viene modellata divenendo un’altra storia, quella di un percorso di formazione, emotivamente coinvolgente, focalizzato sull’inadeguatezza.
Nella costruzione di un monologo vivace e godibile cui non mancano sprazzi di poesia, la regia di Serena Sinigaglia vira al pop, convogliando i toni – ora comici ora grotteschi – verso il coinvolgimento della platea.

FAME MIA
di Annagaia Marchioro e Gabriele Scotti
regia di Serena Sinigaglia
con Annagaia Marchioro
allestimento scenico di Maria Spiazzi
costumi Erika Carretta
produzione Agidi srl

durata: 1h 15′
applausi del pubblico: 3′

Visto a Milano, Teatro Leonardo, il 6 febbraio 2018

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