Fanny & Alexander, uno dei nomi tra i più conosciuti della generazione teatrale degli anni Novanta, ha portato in Italia una prassi continuativa sul performativo, sui nuovi linguaggi, dove la drammaturgia diviene non elemento di secondo piano, ma punto di partenza da asciugare e anche, ove necessario, eliminare, per creare una cesura, un corto circuito comunicativo con il pubblico, attraverso una ricerca estetica che ha sempre cercato il cross over e favorendo una riflessione sul rapporto fra tradizione e nuove tecnologie.
La compagnia nasce nel 1992, fondata da Luigi de Angelis e Chiara Lagani: se da un verso non possiamo non pensare alle influenze che su tutta la macroregione Emilia Romagna ha avuto il lavoro della Socìetas Raffaello Sanzio, d’altro canto non si può non riconoscere che la compagnia si impone per un tratto innovativo, attento ad indagare al bordo del malessere contemporaneo che, demitizzato, trova nel suo titanicamente minuscolo il tratto distintivo.
Vincitori di numerosi premi (come lo Speciale Ubu, il Premio Speciale al 36° Festival Bitef di Belgrado, il Premio di Produzione Riccione TTV, il Coppola Prati e il Premio Giuseppe Bartolucci), hanno finora prodotto una cinquantina di eventi tra spettacoli, concerti, produzioni audiovisive, installazioni, performances e mostre, e guardando in distanza a tutto il lavoro, si può dire che, in fondo, il passaggio concettuale che Fanny & Alexander ha sempre indagato, esplicitamente o in nuce, è stato quello dal macro al microcosmo: fino a fare di Hitler, negli ultimi spettacoli, un ometto e non più un perfido titano, o di Dorothy, la protagonista de “Il meraviglioso mago di Oz” di L. Frank Baum (su cui indagano dal 2007), non più una figura da fiaba ma il simbolo di un femminile declinato al quotidiano, che nell’identità fra paura assoluta e paura soggettiva, cerca evidenza, riflesso di quello che la fiaba, la leggenda e la storia traslano nel mondo degli assoluti.
Se può sembrare eccessivo, forse, parlare di lavoro junghiano sulle immagini ancestrali, è indubbio comunque che il tentativo sia quello di favorire la riflessione sull’archetipo, proprio nel punto di congiunzione fra il mondo del concettuale e il mondo del tangibile.
Il mito si sporca, Dorothy diventa una qualsiasi delle donne che incrociamo per strada, con le sue paure, il suo inciampare, anche voluto: Dorothy, la donna che giunta a Oz, lì lì per essere esaudita, scopre che il suo mago è un falso mago e un vero artista, artefice dell’inganno e della realtà del suo percorso. Anche il recente “South – North” era un dittico, o opera musicale in due atti, ispirato a questa figura, al suo percorso-attraversamento.
L’ultimo atto di questo studio pluriennale, portato in scena al Museo anatomico di Modena in occasione di “Un colpo”, festival delle quattro compagnie storiche emiliano-romagnole organizzato da Ert, si intitolava “There’s no place like home”.
Dorothy, stanca di cercarsi altrove, scopre che in realtà non solo non c’è posto migliore che casa propria, ma forse che anche tutto il mondo, l’universo fantastico, si ritrova, a volte a brandelli, in se stessi. Vecchio adagio popolare e in fondo emblema di una ricerca, dove tutto il mondo, la fiaba, il mito, l’archetipo del bene e del male è come casa propria, è in sé.
Con Chiara Lagani, fra scheletri e resti di corpi umani rinchiusi nelle teche del museo modenese, parliamo proprio di questo: del mito che si fa carne. E ossa.