Il Faust di Purcărete: benvenuti all’inferno

Faust - Purcarete
Faust - Purcarete
Faust (photo: eif.co.uk)

Pare che uno degli aneddoti più famosi riguardanti Silviu Purcărete sia l’eterna domanda dei critici: “Come fa a cavarsela così bene manovrando un tale numero di attori in scena?”. La sua risposta è semplice: “È parte del lavoro”. 28 anime in “Metamorphosis”, 21 in “Pantagruel”, ben 120 in “Les Danaides”, distribuite su uno spazio abbastanza vasto da poterci parcheggiare un jet. Eppure, a sentir parlare lui e i suoi, sembra che l’approccio di Purcărete sia sempre votato all’individualità, alla libertà dell’attore. La performer Ofelia Popii (Mefistofele in questo “Faust” presentato al 63° festival di Edimburgo) racconta quel metodo di lavoro con il tono candido di chi, allargando le braccia, si dice testimone di uno spettacolo d’illusione, un’alchimia misteriosa: “[Purcărete, ndr] è un personaggio enorme ma calmo, non impone niente, non si spazientisce, non spreca energie. Non ne ha bisogno perché conquista un’attenzione completa in ogni caso. Gli attori si fidano di lui e seguono le sue idee. A volte hai la sensazione che non ti abbia dato niente, ma in realtà ti dice poco e con quel poco è lui a creare le immagini nella mente di tutti quelli che lavorano con lui – un po’ qui, un po’ lì – e alla fine, magicamente, ogni cosa si rivela perfettamente in equilibrio”.

Potremmo parlare della sfavillante carriera di Silviu Purcărete, regista nato e cresciuto a Bucarest quando ancora le frontiere erano chiuse; potremmo raccontare di come sia diventato in pochi anni un maestro della scena internazionale, e ripercorrere le tappe di quel cammino che, grazie a “Ubu Rex with scenes from Macbeth”, “Titus Andronicus” e “Phoedra”, grazie a “The Tempest”, “The Danaids”, le “Metamorfosi” di Ovidio e il “Pantagruel” da Rabelais, lo ha portato a creare un genere tutto suo.
Potremmo, increduli, sussurrare a chi non fosse stato presente alla Lowland Hall di Ingliston che, in scena, si muovevano contemporaneamente 76 tra attori e attrici; potremmo anche raccontare di aver visto 12 uomini-maiale portare in trionfo un rinoceronte bianco, giurare di essere passati attraverso un vero e proprio inferno, al punto da avvertire vertigini e nausea. Potremmo vantarci di aver assistito a una trasfigurazione completa del concetto di recitazione, di quei fenomeni grazie ai quali non importa che lingua si stia parlando – qualcuno capisce il rumeno? Io ancora no – : l’essenza e a volte anche i dettagli della storia si comprendono comunque. E non perché li si conosca, ma perché si condensano in un processo vitale che conquista l’intera scena.
Potremmo prendere queste annotazioni e andare a fondo nella descrizione di ciascuna. E, garantito, restereste stupefatti. Sarebbero numeri stupendi. Ma nessun elenco di addendi è paragonabile al risultato dell’addizione. Dovessimo trovarci a scomporre la formula, sarebbe comunque impensabile ricostruire i nessi. E poi ci piace pensare che Silviu Purcărete non gradirebbe che un suo spettacolo venisse sezionato. Ogni invenzione di questo “Faust” – e sono centinaia – sembra gridare a squarciagola la propria identità organica, la propria funzione alla creazione del tutto. E quel tutto, stavolta, supera ogni aspettativa: la compagnia del Teatro Nazionale Radu Stanca è riuscita a creare un intero mondo. Un cosmo perfettamente binario, una dimensione double-face: da un lato la realtà, dall’altro il sogno; di qua la vita, di là la morte; ora l’aria, ora il fuoco, “on one side the garden on one side the flame”, diceva Wordsworth.

Certo è che se qualcuno nutriva ancora dubbi sull’esistenza dell’inferno, eccolo servito. Quello in cui Faust si lascia trascinare è un vortice di frenesia, un’orgia consapevole, un incubo a occhi aperti in cui la natura umana trova finalmente un senso, si rivelano i segni, si completano i rituali.
Il dottore che vende l’anima al diavolo (imponente Ilie Gheorghe) è un malinconico essere umano alle prese con una depressione sferica, impossibile da afferrare, un’ansia di vivere che lo coglie in piena maturità. In questa versione della tragedia di Goethe (Purcărete ci tende a precisare che la musa non è Marlowe) manca quasi del tutto la rappresentazione di quel glorioso momento in cui l’anima di Faust incassa la ricompensa per essersi donata. Nessun successo, nessuna gloria. A invadere subito tutto è, anzi, quell’infallibile amarezza che rende inutile la ricerca di una sapienza, effimera ogni conquista della ragione.
Se Edinburgh 2009 era dedicato all’Illuminismo, per il Faust del maestro rumeno quel Lume non si accende mai, la malinconia sbava sulla fiamma e la esaurisce. Ed è per questo che l’uomo ricorre al Demonio. Per questo che l’anima perde ogni importanza: laddove la ragione non ti salva, meglio allora tentare un’altra sorte. Abbandonare la salvezza e tentare di ricostruirsi una vita all’inferno. In fondo un ultimo, disperato viaggio di conoscenza. Allora ribaltiamo tutto, gettiamo le membra nel fuoco, scaviamoci la fossa. Rinneghiamo. Spalanchiamo quella voragine blasfema in cui possiamo ridere della sofferenza, in cui possiamo diventare pedofili, zoofili, necrofili, cannibali senza dover rendere conto a coscienza alcuna.

Mefisto è una donna, l’incredibile Ofelia Popii, tra gli animali da palco più affamati che possano essere liberati. Famelica, sensuale, deforme, malinconica, divertente, strisciante, lussuriosa, perfida, sporca, scaltra. Mai si è visto Satana più giusto di questo: la personificazione accurata della doppiezza umana. Un essere che non ha volto, non ha età, non ha sesso, non ha pietà. Ma che, in quanto metà oscura di ciascuno di noi, succhia linfa dalla stessa anima del corpo che ospita. Come dire che il Demonio, lo stesso che era entrato in forma di cane nero (presente davvero sul palco, un ingresso da levare il fiato), lo stesso che filtrava come nebbia da ogni crepa nel pavimento e con una fiammata buttava giù solide mura, lo stesso che aveva al servizio una legione di elfi affamati e lupi, lo stesso che si era presentato con le parole “sono l’essenza della privazione”, una creatura quasi onnipotente, non sarà mai veramente libero. Particolare che in questa versione della tragedia macchia il Diavolo di una fragilità inaspettata.
Dopo aver trascinato Faust (e noi con lui, nel senso letterale, facendoci scendere la platea e guidandoci oltre le quinte in un altro enorme spazio), dopo avergli mostrato un assaggio di quella dannazione eterna, Mefisto invoca la Morte perché venga a prelevare il prigioniero. È arrivato il momento di gustarsi quell’anima venduta. E invece è la forza dell’anima di Faust ad averla vinta. Il corpo del dottore viene risucchiato all’inferno, ma un dolore nero avvolge Mefisto. Il medesimo dolore che aveva convinto Faust a contrattare il mercimonio. Questo declino inesorabile che fa appassire la vita l’avrà vinta su tutto e tutti, riducendo uomo e diavolo alla stessa carne destinata alla decomposizione, appiattendo il loro spirito fino a farne concime per i vermi. Da un lato un Faust diabolico, dall’altro un Satana umano. Cerchio perfetto.

FAUST
di Silviu Purcărete da Johann Friedrich von Goethe
traduzione: St Augustin Doinas
regia: Silviu Purcărete
produzione: Teatro Nazionale “Radu Stanca”, Sibiu
con: Ilie Georghe (Faust), Ofelia Popii (Mefisto); 39 attori e 35 tra studenti e diplomati del Dipartimento di Arti Teatrali dell’Università di Sibiu “Lucian Blaga”
scene: Helmut Sturmer
costumi: Lia Mantoc
musiche: Vasile Sirli
video: Andu Dumitrescu
durata: 2 h 25’
applausi del pubblico: 7’ 20’’

Visto a Edinburgh, Lowland Hall Royal Highland Centre (Ingliston), il 22 agosto 2009
Edinburgh International Festival 2009

 

 

0 replies on “Il Faust di Purcărete: benvenuti all’inferno”