Inserita nell’ambito del Festival Ammutinamenti, la Vetrina della Giovane Danza d’Autore rappresenta ogni anno il clou delle attività dell’Associazione Cantieri di Ravenna, che dal 1994 opera per promuovere e sostenere la giovane danza d’autore, garantendone la diffusione sul territorio regionale e nazionale.
Decine di artisti e compagnie provenienti da tutta Italia si sono esibiti in spazi teatrali ed extrateatrali della città di Ravenna, sotto lo sguardo vigile del pubblico e degli operatori appartenenti alla rete Anticorpi XL. Coordinati da Cantieri, direttori di festival, teatri e rassegne hanno costituito nel 2007 un network nazionale che segue, valuta e sostiene i giovani coreografi, aiutandoli a circolare sul territorio italiano e offrendo loro la possibilità di approfondire la propria ricerca e confrontarsi col pubblico.
Fin troppo evidente il carattere strategico e delicatissimo di questa manifestazione, forse meno evidenti le considerazioni più strettamente legate all’attività della creazione coreografica che un evento come questo può far scaturire.
Nell’osservare i lavori di questi giovani autori e nel riflettere sui punti di forza e di debolezza che li caratterizzano, emergono con chiarezza una serie di questioni più o meno ricorrenti, come se le diverse esibizioni, considerate collettivamente, costituissero un campionario di limiti ma anche di possibilità, di momenti perfettamente risolti così come di scelte sbagliate o incomprensibili. Spesso è capitato, infatti, che nella stessa performance l’elemento più interessante e allettante si trovasse fianco a fianco col cliché, quasi senza soluzione di continuità, come se mancasse ancora un linguaggio medio (e al contempo strutturato) capace di accogliere e trasformare sia la novità che la tradizione.
Il tutto senza mezze misure, come ogni cosa che riguarda i giovani, nel bene e nel male.
Il linguaggio quindi, ecco il punto: trovare il modo di esprimere ciò che si ha da dire individuando la giusta sintesi fra l’universo tematico di riferimento, l’apparato scenico e, soprattutto, il movimento. È proprio nella ricerca sulla qualità del movimento che si addensano i nodi più difficili da sciogliere, dovendo dimostrare di aver trovato una danza unica, originale, identificativa.
Perciò nel rendere conto di un’esperienza variegata come quella della Vetrina – che abbiamo seguito nelle giornate del 16 e 17 settembre – non possiamo non soffermarci su quegli artisti che, più di altri, sembra che abbiano elaborato un linguaggio drammaturgico più consapevole ed uno stile di movimento maturo e personale.
A tal proposito merita di essere menzionato il compatto ed essenziale “There and then” di Giorgia Nardin (Veneto): come in una sequenza cinematografica, nello spazio ampio e luminoso di una bellissima sala della Biblioteca Cassense, si assiste alla danza di liberazione di un corpo che, dapprima timido e incapace di abbandonare l’appoggio delle pareti, acquista consapevolezza in un crescendo di oscillazioni che dalla testa percorrono e scuotono l’intera persona. Un lancio di biglie in uno spazio vuoto. Due occhi neri piantati in quelli del pubblico. Poche immagini, ma che rimangono.
Così come rimangono, al di là del clima surreale e ludico, alcuni istanti di sottile inquietudine vissuti durante la performance interattiva “No, non distruggeremo la libreria Feltrinelli” del Collettivo Cinetico di Francesca Pennini (Emilia Romagna): grazie a una tastiera che emette comandi sonori, collocata in una sala della libreria, il pubblico ha la possibilità di guidare l’azione di tre ragazzi bendati e armati di mazza da baseball che, seguendo le indicazioni in maniera automatica, rischiano di mettere a soqquadro scaffali ed espositori. I corpi di questi danzatori, che indossano solo un paio di mutande, diventano così macchine implacabili e temibili ma, al tempo stesso, appaiono come creature mortificate dall’automatismo e dall’ilarità che il loro stesso corpo genera. Meccanismi di carne, da deridere e da temere.
Umanissimi e ultra borghesi invece Paolo Amerio e Angela Rabaglio (Piemonte) in “Do not, maybe”: su un ideale campo da tennis i due danzatori, rigorosamente muniti di polo e scarpe bianche, si affrontano in una sfida in cui la competizione atletica si mescola all’attrazione fisica, confondendo corse, scatti, volées e baci appassionati. Il tutto rimpastato e sublimato in un linguaggio coreografico ibrido, in cui la danza viene mostrata nei suoi aspetti più atletici (la corsa, il salto, gli equilibri, le forze) senza perdere mai eleganza nel flusso, leggerezza e plasticità. Un lavoro sul movimento completo, che richiede una tecnica sicura ma che riesce anche ad abbracciare il gesto quotidiano e la mimica, inserendoli nel racconto rigoroso di una storia.
La completezza caratterizza il bellissimo “La Bagarre” della torinese Erika di Crescenzo: una creatura quasi irreale, livida, a metà fra il Pierrot, la marionetta e un guitto artista di strada, suona una malinconica fisarmonica sotto le volte del Museo Nazionale. Il corpo diventa tutt’uno con lo strumento, dando vita a un passo a due stralunato, intenso, carnalmente lirico: il gesto richiesto dall’esecuzione sonora si fa stimolo per la danza, generando discese e salite, scivolate, rotolamenti e aperture delle gambe. La danzatrice esegue le note che danno il ritmo alla sua stessa danza, in una complementarietà totale fra corpo e fisarmonica: l’estensione dell’uno corrisponde alla contrazione dell’altro, in uno scambio di sonorità e di respiri. Un passaggio di grazia, musica e passione.
Chiudiamo questa ricognizione per immagini ed evocazioni con “Cantando sulle ossa” di Francesca Foscarini, un assolo in cui la danzatrice si lascia tentare dall’ebbrezza del movimento fino ad abbandonarvisi: l’impulso all’azione sembra fluire dapprima in uno strato interno del corpo – attraversando le articolazioni, ora sciogliendole ora frantumandole, e producendo un movimento plastico e al tempo stesso spezzato – ma progressivamente raggiunge gli strati più superficiali, facendosi corsa forsennata, caduta, risata. Tutto si riassorbe, sul finale, in una stasi piena di tensione, in cui il corpo sembra aver incamerato l’esperienza fatta e l’interprete può guardare, fissa e sfinita, gli spettatori che ha di fronte.
Com’è connaturato all’idea della vetrina, anche in questo caso si rimane quasi storditi dalla mole di lavori, percorsi e ricerche artistiche a cui si ha la possibilità di assistere.
Sarebbe ingiusto non soffermarsi su un aspetto che, peraltro, ha avuto modo di sottolineare anche la critica di danza Silvia Poletti, che proprio durante la “Vetrina della giovane danza d’autore” ha conferito il Premio Danza & Danza al Network Anticorpi XL come “miglior operatore”: la Vetrina, inserita nel contesto di lavoro in rete, offre agli artisti anche la possibilità di sbagliare, di confrontarsi con la disapprovazione del pubblico e degli addetti ai lavori, il tutto per migliorare e per sperimentare modalità di ricerca e di creazione che necessitano di tempi lunghi e tentativi numerosi.
Tentativi che presuppongono anche una certa maturità del pubblico, il quale non dovrebbe sempre esigere un prodotto fatto e finito, consapevole del contesto in cui i lavori vengono (in questo specifico caso) presentati, e valutando con intelligenza e fiducia situazioni di confronto alternative.