Festival della Valle d’Itria. Il senso del dettaglio a Martina Franca

Le donne vendicate di Piccinni (photo: Marta Massafra)
Le donne vendicate di Piccinni (photo: Marta Massafra)

A mezzanotte il posto più pulito dell’autostazione Tiburtina, da cui partono gli autobus per tutta Italia, è il cesso. L’hanno appena pulito, e andarci costa 60 centesimi, dieci in più di quello della metropolitana. Ma la qualità si paga, e comunque, tanto per cambiare, quelli della metro sono rotti, due su tre, e non accettano le monete che mi ritrovo in tasca.
Qui, invece, anche i lavandini sono candidi, e il sapone liquido trabocca dai dispenser; un profumo di prodotti chimici aggressivi ti avvolge, e la vecchia forma “alla turca” ha una sua pungente malinconia. Puzza molto più di urina uno qualsiasi dei marciapiedi romani affogati nel caldo di fine luglio, che restituiscono l’atroce calura del giorno, o i secchi dell’immondizia in piena e febbrile fermentazione, gli agglomerati di cartoni e coperte buttati in una costellazione di cartacce e schegge, al cui interno, forse, c’è un uomo. O che forse è un uomo.

Allontaniamoci da Roma, Roma senz’acqua che si beve gargantuesca le sorgenti e i fiumi, e i laghi un po’ per volta, Roma senza aria, putrescente, senza nemmeno più la sua luce gialla melanconica, senza cura e senza più cultura, in cui sembra veramente che tutto possa accadere, un tutto inquietante e precipitosamente volto al basso.
Il pullman imbrocca veloce la tangenziale, poi il raccordo anulare e in pochi minuti l’autostrada, su un asfalto lucido e veloce, quasi antibatterico sotto le luci ghiacciate dei fari.

«Viaggi di notte, così la mattina può venire al convegno su Celletti» mi aveva suggerito un responsabile del Festival della Valle d’Itria di Martina Franca, con una voce avvolta dal soffice corteggio di infinite sigarette. Io l’ho ascoltato. Tra brevi sonni, la notte passa veloce. Una ragazza bionda davanti a me ride a voce troppo alta, ma è un piacere ascoltarla, e dà il lieto viatico alle partenze: al gruppetto di francesi, alle fidanzate romane che vanno dai compagni “di giù”, ai fuorisede che rientrano dopo l’ultimo esame vinto o fallito, carichi di rimorsi, e i romani, di pessime intenzioni.

Verso le cinque ci sarà il cambio a Bari: vedo l’aurora, e mi ricordo che è bianca, e veramente dalle dita di rosa. Fluendo dentro il canale di un’immissione autostradale, affondato e quasi supino nel sedile nuovo, comodissimo, alzo gli occhi alla frantumata periferia, ai soliti capannoni industriali che ogni città, anche questa, ha seminato negli spazi che la circondano. Sono casamenti bassi, ai quali si alternano uliveti, in parte dimenticati, bruciacchiati, persi, lasciati a spegnersi forse in quel loro astruso morbo, altri floridi. Sopra a tutto, una stretta striscia di nuvola, a pochi metri dalla terra, che separando il bianco dal rosa piano piano si disfa, mentre noi le corriamo paralleli.
Lentamente la luce matura e si fa d’oro; alle sei e mezza – dopo aver percorso tra frenate e sobbalzi le strade dell’entroterra pugliese tra le province di Bari e Taranto, da Massafra ad Alberobello, sorpassando più e più volte il solitario corso della ferrovia del Sud Est, che sparuta compare, sempre senza un treno sopra, e ancora oliveti su oliveti, e muri a secco, e trulli che farebbero il sollucchero di una fotografo dilettante – sono a Martina Franca.

Il laboratorio di Celletti
Venga al convegno su Celletti, mi avevano detto, e io ci vado. È stato organizzato per i cento anni dalla nascita, e lo introduce con originalità ed emozione il Presidente del festival, Franco Punzi.
Negli anni Settanta un dirigente della Motta, autore di romanzi estenuatamente autobiografici e sensuali, eresse il suo monumentum. Era Rodolfo Celletti, profeta “dilettante” della belcanto renaissance, creatore della moderna “vociologia”, che di Martina Franca ha fatto il suo laboratorio il festival dal 1980 al 1993.
Ora un’accademia ne ricorda il nome.

Cosa sia la vociologia è difficile da spiegare: una materia comodamente incastrata fra fisiologia fonatoria, filologia dei testi delle prassi e delle tecniche esecutive, e musicologia, finalizzata all’ascolto e all’analisi del canto d’arte. Cosa sia il belcanto ce lo spiega Celletti stesso, individuandolo in un lasso temporale e in una temperie culturale ben precisa, quella dell’immaginazione barocca, che ha avuto in Marino il suo corrispettivo letterario e che propugnava la creazione di un mondo fantastico e artificiale, con proprie regole inattaccabili, una fuga dalla banalità della vita per i sentieri della meraviglia e dell’inaspettato.

Il festival che fu del belcanto la culla (o il tavolino evocatorio) è così, composto di opere scelte, mai più rappresentate da decenni o secoli – come l’Orlando Furioso di Vivaldi del ’78, un brusco reindirizzamento delle bussole di studiosi ed esecutori italiani verso quel repertorio –, o mai più rappresentate nel modo “giusto” – come la Norma del ’77 con due soprani, o l’integrale Semiramide rossiniana, capolavoro “postumo” del barocco, secondo la definizione di Foletto.
Ma ciò non deve dare l’idea di un grigio consesso di accademici, perché nel canto, e specialmente in questo canto artificiale, virtuosistico, eccessivo e sconvolgente, non può mancare una generosa porzione di sangue e follia, di esagerazione e sregolatezza. Di tifo. E di gioventù, cantante e non, seria e scostumata insieme, capace dei più grandi ardimenti e delle più pavide ritrosie, di furia e sconsolati pianti.

È, questo di Celletti e dei suoi seguaci o avversari, un mondo nutrito di una lingua speciale, lingua sensuale di tutti i sensi, piegati all’impresa di quella costante alchimia sinestetica indispensabile per parlare della cosa fisica e aerea, semplice e miracolosa: il canto.

Oggi il festival, guidato con le personalità di Alberto Triola e Fabio Luisi, prosegue in questo percorso, reindirizzato da nuove scelte produttive e di repertorio, con le importanti collaborazioni con la locale Fondazione Paolo Grassi (che qui era nato), il Piccolo Teatro di Milano, il quarto anno del corso “danzatori” dell’Accademia Paolo Grassi, con l’Accademia del Maggio Musicale Fiorentino e l’Accademia delle Belle Arti di Bari, oltre che robustamente supportata dalla Regione Puglia.

L’impatto che il nome e l’attività di Celletti produssero sul mondo dell’opera si sentono ancora, come un’eco che – a tredici anni dalla morte – non si è spenta. Basta farsi un giro su Google digitandone il nome. Come quello di un efferato capopopolo, esso genera le reazioni più contrastanti, ingrossate dalla spregiudicatezza arrogante del mezzo.
Non è facile per chi viene da fuori orientarsi in questo mondo. Contribuisce a renderne delicato l’ingresso l’impressione di un ossimoro, quello di un club individualistico e geloso: ne fanno parte liste di corruschi Innominabili, di scuole o capiscuola idiosincratici e fieri persino dall’aldilà, e lo spettro ancora più vivace ed elettrico del Giudizio. Un Giudizio che, come uno venticello non sempre privo di malignità, si aggira per le esecuzioni, scavalca lo spazio tra palco e platea per nuotare a ritroso nel flusso del canto, entrare quasi nella bocca dell’interprete a sorprenderne l’effetto, il difetto.

Dare senso all’insensato: Le donne vendicate
Sono di nuovo su un pullman, e la luce è nuovamente variabile, perché è il tramonto. Destinazione è la Masseria Palesi, a pochi chilometri da Martina Franca, dove si rappresentano i due intermezzi romani di Niccolò Piccinni intitolati “Le donne vendicate”, su un libretto goldoniano rimasticato da Petrosellini.
Questo tipo di intermezzi si usava rappresentarlo a Roma fra i tre atti di una commedia in prosa. Hanno uno spirito comico che naviga dalla cordiale comicità alla farsa. Qui la storia è quella di due fanciulle che vogliono, per diverse ragioni, vendicarsi di un conte narcisista e sciupafemmine (Manuel Amati). Entrambe nascondono però il segreto fine di farsi da lui sposare. Una delle due, la più rispondente ai canoni della fanciulla candida e buona (Chiara Iaia), vi riesce, e all’altra, inizialmente immagine della donna “dotta” (temperata probabilmente da saggia cautela vaticana), non rimane che ammogliarsi con un vecchio zio, e dichiarare «Non vuò più romanzi / non vuò più studiar».
Di questa sconfortante ritrattazione caricherà su di sé il peso l’agilissima Barbara Massari (Aurelia), e la renderà comicamente credibile, persino dopo l’irresistibile furia dell’aria “Infelici, poveri uomini”.

L’inconsistenza del testo è riscattata da una musica brillante, a tratti originale ma perfettamente equilibrata. L’esecuzione è pulita e intelligente, la direzione del giovane Ferdinando Sulla è coscienziosa, lieve ma non superficiale, precisa, senza nessun cedimento e saldamente legata al canto con grande naturalezza, senza scatti o intemperanze. Così i quattro interpreti, che sono a loro agio nelle fitte colorature e nei ritmi concitati, come nelle inflessioni patetiche.

All’impostazione generale dello spettacolo, che procede oliato e senza intoppi, si possono però muovere due critiche: la prima è quella, generale, di voler giustificare il testo. Il regista Giorgio Sangati infatti compie un parallelismo tra il mondo settecentesco delle arcadiche, poco più che metateatrali “arguzie femminili” e quello ben più serio delle suffragette, inserendo l’argomento nella trama per mezzo di figuranti e azioni sceniche interpolate. Ciò opera un pericoloso innalzamento del tono, dal disincantato proprio del testo letterario originale a un livello che il testo di Goldoni/Petrosellini non regge. Le infiltrazioni dunque delle figuranti vestite alla Pankhurst sono un passo falso e controproducente (e in generale nei costumi c’è qualche incongruenza, e sembrano coprire un periodo di almeno settant’anni). Le donne vendicate si basano sul gioco, non hanno alcun addentellato politico, e la loro vendetta è suggellata, guarda un po’, da un doppio matrimonio: c’è del moralismo a voler rendere il loro innocuo ingiustificabile disimpegno giustificabile.

Il secondo limite è quello dell’uso timido dello spazio scenico. La regia ha reputato più utile la costruzione di un paio di elementi di scenografia, sorta di periatti, o siparietti apribili, per simulare le finestre interne di uno studio rispetto a un’operazione di ricollocamento in esterno delle scene che il libretto prevedrebbe in interno. Ma è un peccato e forse una leggerezza non accorgersi che, trovandoci in un graziosissimo cortile con un doppio ordine di finestre sul fondo, e un arco sulla destra, e un ingresso dietro la platea, e una porta frontale (unica realmente utilizzata), si avevano già tutti gli elementi per una varietà ambientale, anche a voler rischiare qualche difficoltà di accordo tra i cantanti e l’orchestra, peraltro intelligentemente posizionata sulla sinistra, per non intralciare la vista della scena. Quando lo spazio è così fortunatamente condizionante non sembra necessario “fingere” un altrove; è più coerente organizzarsi in quello, senza contaminarlo con macchine teatrali, unici elementi non “naturali” dell’intero contesto scenografico. Peraltro uno splendido calessino, posizionato sulla destra della scena, non è stato nemmeno sfiorato dagli interpreti mentre avrebbe senz’altro potuto ospitare i lazzi più diversi.
Al di là, comunque, di questi appunti lo spettacolo è filato spontaneo e piacevole, e il ritmo della scena si è perfettamente attagliato a quello musicale, soddisfacendo davvero appieno il pubblico.

Intermezzo
(Due fanciulle vivono in un’isola disabitata da tredici anni. Una, Costanza, è stata abbandonata dal marito (in realtà rapito dai pirati) e l’altra, Silvia, sua sorella minore, non ha memoria del mondo civile e ama la natura con tutti i cari animali, tra i quali predilige fra tutti una cervetta. Quando finalmente Gernando, il marito della prima, riesce a tornare sull’isola disabitata, a causa dell’iscrizione incompleta che essa ha lasciato su un sasso, la crede morta. Il confidente di Gernando, Enrico, vuol farlo riportare a forza sulla nave, ma proprio allora spunta Silvia, di cui quest’ultimo si innamora. Svenimenti, fughe, risvegli intempestivi, incomprensioni, e alla fine è amore – doppio, ovviamente, ritrovato per gli uni, neonato per gli altri.
Ora un quiz. Chi mai potrebbe essere l’autore di un così perfetto congegno di topoi arcadici, macchine drammaturgiche e liasons-des-scenes da manuale, caprette, e antri boschivi e sassi e grottesche?
Metastasio, ovviamente. Nel pomeriggio martinese il chiostro dell’ex convento di San Domenico si traveste da palco per quest’operina “da salone”, musicata da Manuel Garcìa padre, quello che per primo cantò la parte del Conte nel Barbiere di Rossini, padre di due fra le più grandi cantanti dell’Ottocento, Maria Malibran e Pauline Viardot.
Prima di lui il testo fu musicato da altri, ed ebbe l’onore della prima esecuzione del più celebre fra i castrati, Farinelli. L’esecuzione è in forma di concerto, ed esula i nostri interessi, ma vale lo stesso la pena della nota questo viaggio di nemmeno un’ora in un continente impossibile e meraviglioso. Il cast vocale era composto da Rossella Giacchero, solida sostituta dell’ultimo momento, Chiara Iaia, uno sregolato Nico Franchini e Luca Vianello, gli ultimi tre allievi dell’Accademia).

La città lentamente si spegne, in un giorno non festivo. Critici, giornalisti, pochi cantanti e qualche musicista (riconoscibile dalle custodie degli strumenti), la tagliano scantonando fra salite e discese.
Penso all’opera di Piccinni. Ho assistito a una piccola messinscena che, sulla carta, avrebbe potuto essere allestita ovunque. Cos’altro la componeva? Un piccolo complesso orchestrale, due coppie di cantanti, una regia agile e uno spazio non teatrale ma affascinante, come peraltro non ne mancano in Italia. Ma qui, a Martina Franca, tutto si dispone secondo un deciso indirizzo di correttezza, di precisione, in una parola di orgoglioso decoro artistico che altre mille rappresentazioni estive italiane si sognano.
Persino i cantanti sembrano per lo più contenuti in una disciplina che desta ammirazione e suscita un entusiasmo nel cuore. Perché? Sono le biblioteche, le schermaglie e le sfide teoriche? È lo studio, è l’impostazione dichiaratamente alta, di recupero filologico? È l’abbandono alla splendida illusione di un ritorno all’opera lirica come arte popolare di massa, nei fatti morta col verismo ma a cui nessuno vuole arrendersi? Verrebbe da dire: chi è dentro, è dentro. È questo? Quanto di questo bellissimo presente possiamo sognare di rivedere in futuro?

0 replies on “Festival della Valle d’Itria. Il senso del dettaglio a Martina Franca”