Il sentimento del tempo al Festival Opera Prima 23

Into the blue (ph: Loris Slaviero)
Into the blue (ph: Loris Slaviero)

A Rovigo si chiude oggi la XIX edizione della manifestazione curata dal Teatro del Lemming

Per il poeta e pittore giapponese Issa Kobayashi, «sta come un pesce / che ignora l’oceano / l’uomo nel tempo».
Il tempo è la misura delle trasformazioni. Se le metamorfosi care al Teatro del Lemming istituiscono il nesso tra realtà e immaginazione, la riflessione connessa al tempo ci pare il filo rosso che ha contrassegnato la due giorni iniziale del Festival Opera Prima.

Il festival curato proprio dal Lemming e diretto da Massimo Munaro si apre al Teatro Sociale di Rovigo con Danielle Huyghe. In “Into the blue”, la coreografa belga, insieme alla danzatrice Jill Kupers, mette in scena lo stato d’insonnia di due giovani donne. L’insonnia ha spesso condizionato la vita e limitato perfino l’arte di Danielle Huyghe.
In sala troviamo già le danzatrici distese sul palco. Sono corpi immobili e muti. In questo lavoro di danza e cinema, la dimensione onirica è data dalle immagini del film “L’Heure bleu”, realizzato dalla stessa coreografa. Ci sono due letti d’ospedale, due donne addormentate, e lo scandire isterico del tempo attraverso un ticchettio d’orologio. È in quel momento che inizia la danza di corpi nevrotici.
È una performance a tratti violenta e sclerotica. Movimenti e gesti spigolosi, violenti rumori di fondo dilatano un senso d’energia prorompente.
Le musiche di Alberto Granados Regulión e Max Kelm sottolineano un senso di disagio. A mitigarlo, immagini offuscate, una sorta di nebbiolina autunnale.
Anche i corpi vivi in scena si risvegliano. Huyghe e Kupers riproducono la stessa coreografia dirompente. Si muovono in modo speculare. È un rimbalzo di gesti irruenti e frenetici.
“Into the blue” è anche, a pensarci bene, una metafora dell’arte e della tensione artistica, sempre insufficiente, alla ricerca di una quiete perfettiva di fatto inattingibile.

Ne “Il tempo consuma 1978/2023”, di e con Michele Sambin, il tempo è l’oscillazione di un pendolo che connette passato e presente in una dimensione universale. Viene da pensare, stavolta, ad Einstein, alla teoria della relatività, alle variabili velocità e luce.
Ripreso da una telecamera in presa diretta, con la regia audio e video di Alessandro Fiordelmondo, Sambin giustappone il presente rugoso del suo viso al volto giovane che era 45 anni fa. S’intersecano immagini in bianco e nero. Un busto oscilla a tempo, ora a destra ora a sinistra. C’è un monitor. E l’artista padovano pronuncia una litania ossessiva: «Il tempo consuma le immagini, il tempo consuma i suoni».
Il lavoro riconduce alla stagione fervida del teatro di sperimentazione degli anni Settanta. Il nastro accumula sovrascritture. Sambin suona il sassofono, il clarinetto, il violoncello. Le registrazioni si sfasano.
Nel loop si inserisce una bimba, la piccola Lia, a cancellare con il fiore dei suoi pochi anni il filo di ricordi che nasce da questa performance. È una prova di resistenza al logorio delle generazioni.
Lo spettacolo ha un secondo tempo. Il sistema video loop da analogico si fa digitale. Alla poetica di Sambin si sovrappone stavolta il canto di Ludovica Manzo che, come una pistola carica, inonda di colori il bianco e nero. Si sedimenta, attimo dopo attimo, un canto fatto di echi molteplici, in contrappunto alla trappola del perpetuo fluire delle ore.

Il tempo consuma (ph: Loris Slaviero)
Il tempo consuma (ph: Loris Slaviero)

Il tempo è anche quello dei classici. Ma la “Divina Commedia” è un capolavoro senza tempo. L’Inferno di Dante è un pozzo senza fondo. Alcuni studenti del Liceo Scientifico Paleocapa (Rosanna Amarena, Marina Aspidistria, Filippo Casarotto, Maddalena Dal Maso, Anna Marzola, Luca Pellielo e Francesca Zangirolami) trasformano piazza Garibaldi in un oltretomba a cielo aperto.
In “Terzo canto dell’Inferno – studio d’ambiente” le nuove leve del Lemming danno forma a una prova di gruppo energica e vitale. Con i loro costumi in bianco e nero, con l’aiuto scenico di una cabina che diventa porta infernale, ascensore per il patibolo e traghetto nell’Acheronte, questi ragazzi assorbono il fluido dantesco per riversarlo sulla piazza ancora assolata, restituendo ai versi del Sommo Poeta freschezza e spontaneità. Il lavoro è frutto di un progetto laboratoriale curato da Diana Ferrantini, con la regia di Massimo Munaro.

C’è il tempo delle ferite. Come la sindrome neurologica paraneoplastica che ha sospeso per oltre sette anni il legame con la danza di Valentina Bravetti, fondatrice con Claudio Angelini della compagnia Città di Ebla. Al Teatro Studio troviamo la performer distesa su un tappeto rosso, e la sedia a rotelle ai margini dell’area.
C’è il tempo della guarigione. In “Brave”, concept e coreografia di Paola Bianchi in scena con la stessa Bravetti, assistiamo alla relazione di due corpi che si soccorrono e sorreggono. “Brave” significa abilità. Ma in inglese vuol dire anche coraggio. In italiano arcaico, evoca quel senso di spregiudicatezza selvatica che porta a lanciare il cuore oltre l’ostacolo.
“Brave” è ethos, logos e pathos, cioè il nesso della comunicazione persuasiva secondo Aristotele. Il corpo si modifica, e noi possiamo farne materiale drammaturgico. Assistiamo a una compenetrazione di gesti e sguardi. Le due performer si sollevano con l’aiuto di corde, e danno lentamente armonia al loro battito d’ali spezzate. Annullano, con la bellezza dei loro corpi fragili e il balletto fluttuante delle loro mani agitate, l’illanguidirsi del tempo. E vincono la forza di gravità che cerca invano di inchiodarle a un tempo inerte.

Torna in scena Ludovica Manzo nei ridotti del Teatro Sociale con “Serpentine”, intrigante progetto visivo e musicale realizzato con Loredana Antonelli.
Due donne siedono sui frammenti del tempo. Scompongono e ricompongono immagini e suoni. Manzo, cantante e compositrice, valorizza la propria formazione nell’improvvisazione, nella musica elettronica e nel songwriting. Antonelli è un’artista multimediale e videoperformer che disegna paesaggi visivi ora naturalistici ora astratti, con sconfinamenti in Klee e Rothko.
Suoni e immagini creano reticoli emozionali che avviano la relazione con gli spettatori. “Serpentine” è un lavoro avvolgente e onirico, solenne e cerebrale. Il mood di quest’installazione immaginifica sta nel continuo sconfinare dei linguaggi, in un contrappunto capace di evocare, senza sviscerarlo e senza la velleità di comprenderlo, il fluire del tempo con le esperienze di cui si fa latore.
Quest’arte minimalista alterna saliscendi timbrici, curve melodiche, improvvisazioni per sola voce. Luci e colori dipingono abissi, e si addentrano nei meandri della coscienza assorbendo gli spettatori in uno stato di trance collettiva.
Con voce, elettronica, synth e live sampler, Ludovica Manzo avvia un viaggio ipnotico all’interno dell’inconscio, e apre una finestra sull’insondabilità dell’io più profondo. Il riverbero dei suoni creati dalla vocalist imbriglia la relazione tra luce e colore. Ne nasce un universo psichedelico, subacqueo, concettuale, dove affondano i nostri sensi, spingendo il naufragio dello spirito verso orizzonti archetipici surreali.

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