Ci vogliono lo sguardo acuto e le ginocchia salde di Roberta Nicolai per costruire una programmazione ambiziosa come quella della tredicesima edizione di Teatri di Vetro, tutta arroccata in zone di pendenza, di mobilità freatica, di faglie aperte: le zolle scoscese del laboratorio, dell’opera compiuta accostata alle sue derivazioni, dell’opera come ‘cosa in moto’ sempre, che anche quando giunge alla parola ‘fine’ non smette di gettare germinazioni e generare talee.
A ogni artista il festival, che si svolgerà negli spazi del Teatro del Lido di Ostia per le prime due giornate (14 e 15 dicembre) e che si trasferirà al Teatro India dal 16 al 22, ha chiesto non un lavoro, ma un dittico o un trittico di lavori interconnessi.
In alcuni casi, come si anticipava, sono opere compiute, legate insieme da un coerente binario di ricerca, oppure, benché gravitanti attorno alla personalità dell’artista, caratterizzate da una disparata esplosione della creatività, dalla fame di forme e di esperienze anche antitetiche. Possono essere opere accennate, cartoni preparatori a qualcos’altro (e quel qualcos’altro sarà pure in scena, a conferma del percorso compiuto), opere nate come spin-off, azioni laboratoriali che fiancheggiano testi altri, materiali grezzi, esperimenti, ma sempre tutti degni di essere proposti e fruiti. Ed ecco che si crea una serie di piccoli sistemi tenuti saldamente insieme che ruotano nella galassia del festival, contro una visione mordi-e-fuggi, si potrebbe dire.
Star saldi sulle gambe consiste non solo nella scelta di tale coraggioso profilo della sezione principale (“Oscillazioni”) e degli artisti, di molti dei quali Nicolai ha seguito – come tutor o come osservatrice più o meno coinvolta – il percorso creativo e il lavoro specifico qui proposto, ma anche nel riuscire a coordinare le varie fasi del festival, che ha avuto il suo momento iniziale, come negli anni scorsi, a Tuscania (“Trasmissioni”), dove tre artisti hanno condiviso con il pubblico e i critici un momento di studio e di lavoro attorno a un progetto (Chiara Frigo “Stato H_d”, Salvo Lombardo “Atrio” e Silvia Gribaudi “Mon Jour! studio”).
Si proseguirà con due laboratori (“Composizioni”) della stessa Gribaudi (con Matteo Maffesani) e di Paola Bianchi, unite all’ormai classico “Ballroom” di Frigo, qui recuperato come terzo approccio alla danza “fuori”: insediati a Ostia, troveranno il 14 e il 15 la propria restituzione.
Sarà poi interessante, in “Oscillazioni”, seguire i percorsi di avvicinamento al prossimo progetto di Bartolini/Baronio su “Josefine la cantante” di Kafka attraverso pensieri, libere associazioni, “allenamenti”, e l’analisi di un profilo d’artista; così come esplorare la massa di materiali culturali sommersi dell’iceberg di Teatro Akropolis, che permettono alla cuspide di “Pragma, sul mito di Demetra”, di emergere sul palco. Materiali che sono stati obliterati dalla pratica scenica, o che magari si ritrovano relegati a ruolo di sostegno meramente strutturale, e che sarebbero quindi inaccessibili agli occhi.
Altri sono gli universi culturali attorno a cui ruotano i tre lavori di Menoventi, basati su “Il defunto odiava i pettegolezzi”, di Serena Vitale sulla morte di Vladimir Majakovskij, a cui fa corteggio uno sfaccettato viaggio proprio nel mezzo della rivoluzionaria opera del gigante futurista, così come quelli che Giovanna Velardi ha chiesto di evocare per lei a Matteo Finamore e Andrea Milano, suoi accompagnatori nella creazione di “I broke the ice and saw the eclipse”, ora fruibili insieme all’opera-obiettivo in “Viaggio nel cuore articolare”, curioso per la sua sua parabola di stampella teorica che non si arresta e imbocca una strada rappresentativa autonoma.

Altra ancora è la germinazione dei due lavori che fiancheggiano “Energheia” di Paola Bianchi. “Ekphrasis” è, come dice la parola, il tentativo di trasmettere una coreografia (quella di “Energheia”, appunto, nata da un codice tutto visivo, fotografie) senza la presenza del corpo del maestro, tramite la traduzione in voce delle indicazioni, suggerite ai danzatori attraverso auricolari (sorta di sofisticata score practice); seguirà l’isolamento di quelle indicazioni, come ‘danza senza danza’ da fruire in uno spazio tutto appannaggio dell’udito, dell’immaginazione traduttiva personale.
Questo e molto altro (Teatro Rebis, Carlo Massari, Massimo Donati e due giovanissimi danzatori-coreografi Riccardo Guratti e Giuseppe Vincent Giampino) in un festival che ha come unica cuspide solitaria, unico lavoro che perviene isolato a TdV XIII, “Clorofilla” di Alessandra Cristiani, che Nicolai ha fortemente voluto come rivendicazione di uno spazio per una delle più stupefacenti danzatrici del momento.
Una programmazione insomma che, se pure aperta alla frequentazione occasionale, trova il suo target ideale in un pubblico avanzato (o, perché no, “in avanzamento”, come le opere proposte), affamato compilatore di un panorama del teatro e della danza italiani che rifugga l’aforisma e che sappia osare il sistema, sia pure oscillante, sia pure in travagliato disequilibrio, in un mondo in cui l’asistematico e l’evento sono spesso la scorciatoia confortevole e un po’ scaltra per disimpegnarsi.