Fit, tra finzione e realtà in cerca di una relazione col mondo

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Imitation of Life (photo: Dominik Labhardt)|Mats Staub (photo: Toni Suter + Tanja Dorendorf)
Mats Staub (photo: Toni Suter + Tanja Dorendorf)
Mats Staub (photo: Toni Suter + Tanja Dorendorf)

Uno dei versanti che il FIT di Lugano ha dimostrato anche in quest’edizione di esplorare con convinzione è la cosiddetta sezione “Fuori Formato”, ovvero il dar spazio a creazioni artistiche in dialogo fra arte, teatro, video e suono.

Esemplificativi di questa scelta sono stati quest’anno due progetti performativi svizzeri che hanno trovato spazio in due luoghi simbolo di Lugano.
Il primo, “Holidays”, che ha accolto il pubblico nel foyer del teatro Foce per tutto il festival e per tutto il giorno, ha abitato uno spazio di passaggio non solo per il pubblico che vi sostava prima di vedere gli spettacoli, ma anche per artisti, tecnici, addetti ai lavori, curiosi… Un luogo emotivamente molto caldo, quindi, con una luce intensa e un piccolo bar estemporaneo che, a pochi passi, è stato spesso sede di confronto davanti ad un bicchier di vino e qualche giornale.

E’ in questo contesto accogliente che l’artista svizzero Mats Staub ha inserito con delicatezza una parete bianca in cui hanno trovato collocazione nove i-pad. 
A loro il compito di riprodurre, in loop, inquadrature a mezzo busto di persone diversissime tra loro per età, sesso, etnia. 
Sotto ciascun video era riportato, nelle tre lingue svizzere, il quesito al quale i protagonisti sono stati invitati dall’artista a rispondere, solo con un numero: Quanti amici hai sui quali puoi davvero contare?, quanti lavori hai fatto?, quante persone hai incontrato negli ultimi dodici mesi?. 
La risposta si ascolta mediante una cuffia appesa sotto ogni i-pad, e l’aspetto più stimolante è che ci si sorprende di tutto tranne che del numero pronunciato. 
Ad emergere infatti è la poesia del ricordo nel volto di ogni intervistato che cerca di ricordare, ricapitolando un pezzo di vita. Qualche reazione è esitante, qualcun’altra più pronta e immediata, ma tutte sono dense di un’immaginazione che diventa ancor più forte nell’assenza quasi totale di parola. 
Le cose più banali acquisiscono valore attraverso sospiri, piccoli sorrisi e le pause che precedono la risposta. 

Staub riesce a svelarci tutta la magia di un quotidiano che diventa speciale quando è filtrato dal ricordo e, non a caso, sceglie di farcelo assaporare proprio in un ambiente dove relazione, parola e incontro si fondono in una cacofonia di abbracci e sorrisi. Una situazione di piacevole confusione da cui è bello allontanarsi per un attimo e indossare le cuffie per isolarsi in un rapporto uno ad uno. 
Quasi tutti al FIT si sono confrontati con “Holidays” in modo più o meno consapevole per la facilità d’approccio e l’universalità del messaggio.

E’ un ascolto molto diverso quello che viene invece proposto da Rubidori Manshaft in “12Parole7Pentimenti” e prodotto da Officina Orsi. Diverso è innanzitutto il luogo ospitante, che in questo caso è l’ex Macello di Lugano, ma differenti sono anche le modalità e i presupposti. 
La regista ha creato “un’installazione teatrale di liquide parole” utilizzando come materia prima una selezione di tre anni di audio registrazioni, da lei stessa realizzate, rubando frammenti di conversazioni che lei o altri hanno intrattenuto in giro per l’Europa sui taxi, ai tavoli dei bar, negli aeroporti… 

Di tutto questo materiale l’artista vuole rendere partecipe il pubblico, e lo fa proponendo all’ascoltatore un percorso in quattro tappe che, a partire proprio dall’ex Macello e dopo la visione di un video con immagini accelerate di uomini in viaggio tra scalemobili, auto, check-in aeroportuali e treni, porta le persone (a gruppi e munite di una piantina) attraverso le diverse stazioni dove sono collocate le cuffie pronte all’utilizzo. Quattro sono gli argomenti in cui i file audio sono raggruppati: Amore, Morte, Sesso e Denaro.

Piccoli frammenti individuali per tracciare le storie di tutti attraverso un montaggio volutamente forzato. L’ascoltatore si trova così seduto nel dehor di un ristorante a confronto con le fantasie erotiche, le eccitazioni e le perversioni del sesso; quindi ascolta, seduto in un’automobile, lo strazio e l’ironia della morte, oppure percepisce riflessioni sull’amore e sul denaro dal bar del centro sociale di Lugano.

Al termine di quest’esperienza ci si ritrova tutti al punto di partenza ma in uno spazio diverso. E’ qui che Rubidori si presenta e si dichiara, invitando i viaggiatori giunti al termine a collocarsi di fronte a uno dei quattro video presenti in sala. Sotto i televisori ancora cuffie, ma questa volta i quattro argomenti sono affrontati in lettura dalle voci di Daria Deflorian, Cinzia Morandi, Monica Piseddu e di quattro bambini. 
Il video del tema denaro è affidato alle tenere voci dei giovanissimi che, mentre scorrono davanti agli occhi di chi ascolta le immagini di un videogame, leggono, alternandosi, un testo sul declino economico di Dubai. 
Al termine verrà fornita a ciascun partecipante una chiavetta usb inserita in una sorta di kit, scegliendo tra i quattro argomenti.

Quando si conclude il percorso la sensazione generale è di una bulimia di parole, un insieme non troppo organizzato di pensieri scanditi dalle tante voci delle persone ascoltate. C’è qualcosa di intrigante nello spiare con l’orecchio dal buco della serratura, e c’è un mondo perverso che scivola via dalle chiacchiere apparentemente poco importanti.

Se Mats Staub vuole evidenziare la bellezza del ricordo attraverso la consapevolezza degli intervistati di fronte alla videocamera, Rubidori Manshaft ci porta a spiare dietro le quinte, là dove tutto è leggero, inquietante, inimmaginabile. Perché non è davvero pensabile ipotizzare quanta vita “altra” si nasconda dietro il muro di relazioni che ognuno intreccia ogni giorno.

Al pubblico, o meglio agli ascoltatori, l’ardua sentenza di decidere quale delle due installazioni sia più vera, meno artificiale.

Anche Boris Nikitin, e qui ci spostiamo verso uno spettacolo di ‘formato’ più tradizionale, si pone l’obiettivo di porre l’attenzione sulla vita, sul quotidiano. Lo fa nella performance “Imitation of Life”, più strettamente teatrale ma meno convincente. Una produzione della Svizzera Tedesca che vede in scena due attori, Beatrice Fleischlin eMalte Scholtz, alle prese con le numerose sfaccettature del falso di ogni giorno. 

Imitation of Life (photo: Dominik Labhardt)
Imitation of Life (photo: Dominik Labhardt)

I due interpreti dichiarano da subito di essere stati abbandonati dal protagonista, un falsario per l’appunto, e quindi si apprestano ad improvvisare uno spettacolo in mezzo a riflettori ancora da montare, scale da riporre, sedie da sistemare. Una condizione di precarietà in cui i due iniziano un racconto per episodi della loro vita, intrisi di provocazioni e conditi da un ingrediente costante: la sensazione che tutto ciò a cui si assiste sia una menzogna prorogata.

E’ forse per questo che il pubblico non concede emozioni a chi è sul palco, non si fida e non si lascia andare. C’è la perpetrata convinzione che qualcosa stia per succedere, ed è uno dei pochi elementi che tiene alta la curiosità di chi guarda. 

L’idea drammaturgica è di utilizzare i personaggi come imitatori pronti ad impersonare qualcun altro in un rimando continuo di recitato e non, un gioco che si fonda sul concetto per cui la realtà è più fuorviante della finzione, fino a sovrapporvisi. 
Se l’idea risulta interessante, il suo sviluppo incappa però in un percorso narrativo farraginoso, non aiutato dalla performance in tedesco, che risulta estremamente verbosa e macchinosa da seguire anche a causa dei troppi soprattitoli.

Quella sensazione magica di attesa beckettiana che lo spettacolo riesce a creare potrebbe allora essere un elemento su cui lavorare in sottrazione, sfrondando la scena delle troppe parole e aggiungendo qualcosa di più definito e classico nel suo svolgersi drammaturgico, sfruttando il teatro non solo come luogo di assenza ma anche come sede deputata ad un’azione scenica necessaria.

Uno degli aspetti che hanno caratterizzato questo 23° Fit sta nell’individuazione di un teatro che si affianca e s’intreccia con la performance, abbracciando vari tipi di comunicazione. Una scena che sembra allontanarsi da sé stessa per approdare talvolta all’intangibile della rete e favorire così una relazione più intima con il singolo spettatore. 

Non è certamente stata una caratteristica di tutti gli spettacoli in cartellone, molti dei quali hanno scelto la dimensione più tradizionale del rito collettivo.
Di sicuro, però, quello che il Fit ha sottolineato è l’esigenza, da parte del teatro contemporaneo, di un dialogo a tutto tondo con il mondo che lo circonda, individuando più vie percorribili per superare quel fossato che talvolta, sfogliando i cartelloni delle stagioni, sembra relegarlo in un universo di vita autonomo.

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