Per l’anteprima in italiano di “Tomorrow’s parties” con la trasposizione di Roberto Castello / ALDES, abbiamo incontrato Robin Arthur, cofondatore del collettivo inglese
Da oltre trent’anni sulle scene europee, Forced Entertainment è un collettivo che continua a stupire con processi creativi eterogenei e sempre nuovi, combinando in modo personale improvvisazione, testo e movimento, sulla scia di riflessioni sui tempi che viviamo, e sul modo di fare arte.
Ognuno con il proprio background e la propria creatività, i sei artisti che compongono il gruppo trasformano la sala prove in un’incubatrice di idee e discussioni che danno vita a progetti interessanti, oltre che a nuove collaborazioni.
Lavori come “Out of order” (Fuori gioco), da loro definito come “le rovine di uno show nelle rovine di un mondo”, dove alcuni clown alternano gag comiche a litigi e sentimenti di disagio, o “Under a bright light”, in cui rivedono il mito di Sisifo in chiave burlesca, sono il prodotto del costante impegno del gruppo a esplorare nuove forme di fare performance, sfidando e confrontandosi direttamente con il pubblico.
Per la prima volta, uno dei lavori più conosciuti del gruppo di Sheffield – “Tomorrow’s Parties” – è stato presentato in italiano, con una trasposizione ideata da Roberto Castello / ALDES, che per l’occasione ha collaborato direttamente con i Forced Entertainment per il progetto. In occasione della sua anteprima al teatro San Girolamo di Lucca, abbiamo avuto il piacere di scambiare una chiacchierata con Robin Arthur, uno dei fondatori e interpreti storici dei Forced Entertainment.
“Tomorrow’s parties” è una riflessione sul futuro – in questi giorni particolarmente pesante – che descrivete come “uno sguardo delirante verso il possibile e l’impossibile”. Nonostante i tempi, possiamo anche trarne una interpretazione ottimistica? E in che modo?
Credo che in qualche modo sia possibile vedere il lavoro anche da un punto di vista ottimistico, dal momento che si immaginano tanti possibili futuri. Non so quante immagini ne vengano fuori nella performance, ma sicuramente a centinaia, quindi c’è un’apertura sul futuro e sulle sue molteplici possibilità. Ma è anche interessante vedere come questi possibili futuri siano in realtà connessi tra di loro e alle scelte che abbiamo. È sempre una questione di scelta.
Quindi diresti che, piuttosto di condurre ad una visione più o meno ottimistica, lascia al pubblico la scelta di trarne una propria interpretazione?
È quello che spero, che lasci al pubblico la possibilità di riflettere sulle possibilità del futuro, sul fatto che possano concordare o meno con quanto viene suggerito, o anche riflettere su quello che vorrebbero veramente vederci nel futuro.
È la prima volta che il progetto viene tradotto. Quali sono le vostre impressioni al momento?
La cosa sicuramente stimolante di questo progetto è che, quando interagisci con una lingua differente, ti confronti anche con un modo leggermente diverso di pensare, di vedere il mondo, e questo confronto per me è stato estremamente interessante. C’è una energia diversa nel lavoro, ed era importante per me, cosa che mi preoccupava anche, vedere come gli interpreti si sarebbero confrontati con le idee originali del nostro gruppo, mentre ho constatato che si sono adattati molto bene, portando anche nuove energie e nuove prospettive. Quindi il lavoro non è alla fine una semplice traduzione, una copia plastica del nostro pezzo originale, ma un lavoro con una propria vita e identità.
Avete girato molto con questo progetto in Europa. Trovate differenze nel pubblico e nelle loro reazioni?
Sì, certo, ci sono differenze già anche da una città all’altra dell’Inghilterra. Una differenza interessante nelle reazioni del pubblico che ho notato riguarda una delle previsioni del futuro, che vede la società con una totale mancanza della proprietà privata, come una visione un po’ “comunista” del mondo, e spesso quando formuliamo questa previsione senti il pubblico – anche se non esplicitamente –che in alcuni paesi, come in Inghilterra o Olanda ad esempio, reagisce sostenendo quella ipotesi, mentre quando fai la stessa cosa ad esempio in Polonia, senti un senso di disagio tra il pubblico, come se dicessero “no grazie”. È un piccolo esempio, ma in realtà già offre un’idea di come le varie visioni del futuro possano essere viste positive o negative da persone differenti o di nazionalità differenti a seconda di come hai vissuto la tua storia personale o quella del tuo paese.
Lavorate insieme da oltre trent’anni. Come siete riusciti a preservare la vostra identità, e la vostra visione di gruppo, soprattutto considerando che provenite anche da contesti differenti?
Non abbiamo realmente radici così diverse, e credo che quello che ci lega sia soprattutto la visione di un teatro alternativo o sperimentale. Uno dei modi in cui conserviamo una certa identità di gruppo è il costante cambiamento, che fa sì che il nostro lavoro non sia mai prevedibile. Ad esempio “Tomorrow’s parties” è un lavoro di una decina di anni fa, quasi interamente verbale, con solo due persone che quasi non si muovono, ma il lavoro fatto più di recente, “Under a bright light” (sotto una luce splendente), è un lavoro di movimento in cui non c’è nessun testo. E credo che cambiare continuamente il tipo di lavoro sia molto importante e sia anche ciò che lo continua a rendere molto interessante per noi.
Nel vostro lavoro c’è molta improvvisazione, come lavorate ad un nuovo progetto?
Mi piacerebbe dire che c’è un buon punto di partenza ad ogni nuovo progetto, perché ci risparmierebbe anche molto tempo, ma in realtà non è così, e spesso ci ritroviamo in sala prove senza sapere minimamente cosa fare. Ma l’improvvisazione è sicuramente un altro strumento che ci aiuta a mantenere il nostro modo di lavorare più fresco. Naturalmente usiamo anche i testi, Tim Etchells, il direttore del nostro gruppo, realizza testi molto interessanti, ma l’improvvisazione è importante sotto due punti di vista. Anzitutto per un maggiore coinvolgimento di ognuno di noi nel lavoro, che porta la propria impronta e la propria esperienza nel progetto. Allo stesso tempo il progetto resta vivo perché significa che cambia costantemente. Ognuno di noi oggi svolge un proprio percorso e viviamo anche in luoghi differenti, per cui ognuno porta qualcosa di personale e di totalmente attuale nel progetto, che risulterà quindi sempre un po’ nuovo, ripensato, rimesso in discussione.
È giusto definire che il vostro modo di fare teatro si basa più su una narrazione “de-costruttiva” piuttosto che su una più lineare?
Sì, penso che sia piuttosto vero. Non è che non ci piace la narrativa, ma non è il punto su cui siamo forti. Siamo troppo caotici per un tipo di storia lineare, quindi tendiamo piuttosto ad includere diversi tipi di narrativa, per esempio in “Tomorrow’s parties” includiamo forse centinaia di piccoli brani narrativi, di storie, quindi il lavoro che facciamo è dare forma a frammenti di storie che è in pratica un modo diverso di pensare la forma narrativa.
Il vostro lavoro è spesso considerato provocatorio, così come lo è già un po’ il nome. È anche una scelta politica, o il fine è quello di creare una reazione, forse anche uno shock, in modo da stabilire una maggiore comunicazione con il pubblico?
Sono sicuro che alcuni considerino il nostro lavoro provocatorio, ma non credo che lo abbiamo mai fatto intenzionalmente. Sicuramente cerchiamo di dar vita a lavori che facciano pensare. A volte alcune performance hanno un mix di materiale stupidamente divertente, o testi gratuitamente aggressivi con un risultato spiacevole. Immagino che sia anche una questione di equilibrio, di una giusta combinazione dei materiali, ciò che faccia la differenza, ed è quello che cerchiamo di fare.
Durante il lockdown avete realizzato un lavoro che si chiamava “How times goes” (come scorre il tempo), dove lo schermo era suddiviso in diversi quadri in cui ognuno di voi rappresentava frammenti di vita – di quella vita durante il lockdown – che sottolineava le diverse prospettive del tempo e dello scorrere del tempo che si erano venute a creare. Ma oltre alla differenza dei tempi c’era anche il fatto che raggiungevate un numero sicuramente maggiore di pubblico. Pensi che quel periodo del Covid abbia lasciato un qualche impatto nel vostro modo di lavorare, ad esempio nei tempi teatrali?
Beh’ abbiamo iniziato a lavorare a quel pezzo perché era l’unica cosa possibile in quel momento. Ma mentre procedevamo lo trovavamo sempre più interessante perché era un modo nuovo di lavorare, e sono sicuro che a un certo punto in futuro lo riprenderemo, in qualche forma. Oggi credo che tutti noi siamo ormai troppo dipendenti dal fare performance di fronte ad un pubblico. E credo anche che sarebbe interessante riprendere quel tipo di lavoro, in un momento in cui non è così strettamente connesso al lockdown, quindi con un maggior spazio operativo, e con maggiore libertà.
Dopo tutti questi anni, in cui avete sperimentato diverse forme di fare teatro, pensi che ci sia ancora un ulteriore step da fare, o una evoluzione ulteriore del vostro lavoro?
Sicuramente ci sono ancora cose che non abbiamo fatto. Ci sono ancora tantissime idee da sviluppare, che ognuno di noi ha già in mente. Come dicevo, a titolo di esempio, l’ultimo lavoro non ha testo, e questo è stata già una cosa nuova per noi, dopo trentacinque anni, e sono sicuro che troveremo altre cose da esplorare in futuro. Per il momento stiamo ancora girando con questo lavoro nuovo e anche se abbiamo già parlato di qualcosa per un prossimo futuro credo che per il momento sia prematuro, ma è solo quando ci troviamo insieme in sala prove che le cose vengono fuori. Quasi sempre non sappiamo minimamente in che direzione andremo, ma le cose emergono in modo naturale e si evolvono come se avessero vita propria.
E aspetteremo senz’altro di vedere l’evoluzione di queste idee. Per il momento ci godremo la versione italiana di “Tomorrow’s parties”!