Smart e slow city; città del benessere; rendere il futuro più sostenibile e a misura d’uomo: sono questi i temi che, in questi mesi pre-Expo Milano 2015, vengono maggiormente dibattuti nel capoluogo lombardo attraverso gli eventi disseminati per la città, nei centri di ricerca, nelle discussioni dei singoli milanesi che, sbuffando per la fatica di ospitare un evento così grande, dicono la loro, ciascuno a suo modo.
Cosa c’entra col teatro? C’entra, perché di fatto anche il teatro ha il dovere, o la possibilità, di dire la sua. E non crediamo facendo solo spettacoli ad hoc che raccontino necessariamente cosa significa “sostenibilità”. Magari ponendo invece spunti di riflessione, porgendo stimoli capaci, in modo trasversale, di mettere in luce un pensiero, un’idea, un argomento di dibattito.
E così vogliamo leggere Apache, la linea di teatro coordinata da Matteo Torterolo per il Teatro Litta, che seguiamo al suo secondo anno di vita. Per una volta con uno sguardo diverso. Perché se è vero che i punti cardine di questa linea, che così vuole essere chiamata dal suo curatore, sono sempre la trasversalità dei linguaggi teatrali, la modularità dell’espressione artistica, che non è mai in una sola direzione, insomma la commistione tra generi, vero è anche che quest’anno, almeno per questa prima metà del percorso, ci sembra che i temi della città e dell’uomo siano al centro della riflessione. E non è solo perché nei primi due spettacoli (“White: Wide: Wet” di Andrea Pizzalis e “Delirious New York” di OHT – Office for a Human Theatre) di città, in qualche modo, si parla. Ma anche perché, uscendo dalle serate di Apache, si esce di fatto con un pensiero: cosa sta succedendo all’uomo?
Luca Ronconi, in una delle sue ultime interviste, aveva sostenuto che è necessario un ritorno al teatro di parola. Che si sia o meno d’accordo, la sua riflessione voleva forse sottolineare l’attuale bisogno – a tratti inconsapevole – di parlare, di comunicare, di dire la nostra, di costruire. Senza più farci trascinare in un vortice di cose che vanno troppo veloci, lasciandoci indietro. Abbiamo bisogno di esserci, di fare, di agire. E il teatro, con Apache, sembra ricordarcelo.
Così, per esempio, in “White:Wide:Wet” pare dirci che, anche se ci affanniamo a cercare una strada, siamo sempre uomini soli che, alla luce di un lumino, cercano se stessi con disperazione e amore.
O, in “Delirious New York”, spettacolo ispirato all’omonimo saggio dell’architetto urbanista Rem Koolhaas, la riflessione si sposta su come ripetiamo gli stessi gesti in continuazione, senza soluzione di sorta e, per quanto si cerchi di dare un senso al tutto, non riusciamo a trovare un finale.
O ancora, in “Sapevo esattamente cosa fosse l’amore prima di innamorarmi” presentato da Macelleria Ettore, il discorso si focalizzi sull’amore (l’amore indagato da Checov nei suoi racconti, accompagnati in scena dalla voce e dalla musica di Renzo Rubino), perché l’amore insomma è ancora guida e perno della nostra vita, un’esistenza che non sarebbe sopportabile senza il suo sostegno.
Questi spettacoli ci dimostrano allora come il teatro deve e può inserirsi in un discorso globale. Anche senza gli otto milioni di euro che serviranno per ‘confezionare’ lo spettacolo commissionato al Cirque du Soleil per l’Expo, evento che inevitabilmente fa discutere tutta la rete e i teatranti, non solo milanesi.
In fondo per parlare di benessere basta andare a teatro, trovare spunti di riflessione, proporli alla città. Contribuendo alla crescita del dibattito. E Apache, oggi, ci sembra lavorare in questa direzione.
Aspettiamo quindi gli ultimi tre spettacoli, da qui a giugno: “SnAporaz – HeartBreak Hotel | Primo soggiorno”, dal 23 al 26 aprile, un progetto di Gilda Deianira Ciao, Matteo Salimbeni e Fulvio Vanacore; “Overlook Hotel. Strettamente Confidenziale” dal 21 al 24 maggio del Gruppo Nanou e infine, dall’11 al 14 giugno, “avVento #2. Bestiale Copernicana” dei napoletani TeatrInGestAzione.