“Bad dreams in the night;/ they told me I was going to lose the fight./ Leave behind my wuthering, wuthering/ Wuthering Heights”.
(da Kate Bush, Wuthering Heights)
Incombe tempestosa sul palcoscenico delle Fonderie Limone di Moncalieri (TO), e nel contempo ludicamente rassicurante, una catasta piramidale di sedie, la cui cima – all’apparenza prossima alla caduta, alla detonazione – resta invece lì, vacillante e immobile.
Nicolas Bovey, pittore di scena dai tratti mai decorativi, ha saputo costruire anche in questo allestimento, firmato da Valerio Binasco per la stagione “Diversamente classico” del Teatro Stabile di Torino, un apparato di strabiliante gusto grottesco (si colga l’accezione più nobile del termine, quale frizione tra fine e grosso): i due pellegrini della notte sciabattano infatti entro un parallelepipedo sghembo e fatiscente di proporzioni abnormi, tra calcinacci, muri scrostati e polvere, rischiarati soltanto da filari al neon e da una finestrona di sfondo, da cui si spande una luce affatturata.
Nonostante l’evidente sfasciume di quelle che possono a tutti gli effetti considerarsi le vestigia di un ex-spazio pubblico (sembrano confermarlo i residui del controsoffitto, che richiamano alla memoria una scuola o forse a un ospedale), ecco nonostante tutto, il “sogno” di cui Federica Fracassi e Michele Di Mauro diventano protagonisti non ha nulla a che vedere con le angosciose pene notturne à la Füssli, quanto piuttosto con il replicarsi ossessivo, dadaistico e stravagante di Escher. A purgare infatti cotanti “rottami” (e tali appaiono i personaggi stessi, amabili spettri impiastricciati nella biacca) interviene – rammenta Alessandro Pontremoli nel quaderno di sala – «la catarsi comica, esorcismo del male che si annida nelle pieghe degli eventi e riaffiora nel cuore dell’uomo nei momenti critici della sua esistenza, quando cioè [si manifesta, ndr] la necessità di una verifica ed egli deve scegliere fra l’affermazione risoluta del nuovo, della vita che si rinnova, e la perdita, la caduta».
Ad addur dantesca maraviglia a questa “farsa tragica” di commovente sensibilità e di rara bellezza, per l’appunto, i due attori: da una parte, una Semiramide/Fracassi dal volto imbellettato, gravata da un parruccone settecentesco color platino e avvolta non troppo sinuosamente in un abito chiaro, costellato, al pari del compagno, da escrescenze biancastre (una muffa che si fa motivo…). All’occorrenza, ella sovrappone alla bizzarra mise una delicata vestaglia di seta rosata sdrucita o un più provocante boa, obbligatoriamente in pendant.
Michele Di Mauro è invece il vecchio anfitrione in tait, sovrastato all’inizio da una giacca da camera color castagna. Proveniente forse da un qualche film muto, la picassiana “famiglia di comici” in malora perlustra con grande abilità questo degradato inferno post-apocalittico, sciorinando i verbi di un agitissimo atto unico, cui restituisce grande intensità la storica traduzione di Gian Renzo Morteo (edita per la collezione teatrale di Einaudi).
Le vere abitanti di questa maison du mond sono le parole, o meglio i giochi di parole. Calembour, annominazioni allitteranti, ecolalie consentono all’universo desolato di traboccare di vita: naturalmente lo straniamento – data l’effettiva assenza di intervenuti – rende il tutto folle, giullaresco, terrifico. Un’opera, per dirla con Binasco, di «molta verità e molta allegria genuina».
Nell’improvvisato salotto vanno a comporsi, a livello significante prima che semantico, disquisizioni, vaniloqui, logorree d’ogni sorta. Eppure la sostanza, l’assurdo di essliniana memoria, “il messaggio”, si celano sempre fra gli interstizi del nonsense: la realtà effettuale, «residuo mnestico dello spettatore o […] suo interrogativo», cede il passo a un “proclama per l’umanità” che – in fondo – ha le sembianze ctonie del ritrovare sé stessi, sia pur attraverso un salto nel vuoto.
La prova d’attori resa dal duo è davvero degna di plauso, in particolare per la prossimità empatica (e fisica) che riescono a istituire con il ‘mascherinizzato’ pubblico in sala.
Semiramide/Fracassi è percorsa per l’intera durata dello spettacolo da uno stato di apprensione, di dis-grazia, che le arrochisce la voce, portandola a distillare umori simil-brianzoli. L’andamento parzialmente cifotico, cui si affianca una mimica del volto tormentata da miriadi di micro-movimenti, conferisce alla figura una genuinità, un’essenza vitale indicibile: talvolta sembra assecondare il marito, talatra ne cerca il consenso. È la traslazione minuta del volto in una moltitudine di sì, di no, di incertezze.
In Di Mauro, la fisicità più solida e il timbro baritonale sono punto di partenza, base di appoggio, per ascese con il rampino o sofferenti catabasi: da momenti di maggior baldanzosità (ad esempio per far colpo su una vecchia, incorporea, fiamma – un fuoco fatuo, si direbbe) a “crolli nervosi” di disintegrazione totale, tra lanci di detriti e vibrati vocali.
Culmine dello spettacolo, l’arrivo degli ospiti Tutti. “Quindi stavi dicendo che per stasera hai convocato gli studiosi, i proprietari, i professionisti, Tutti? Sei sicuro, Tutti quanti? Bisogna che confermino, eh”.
In stile viennese, con schienale alto; rococò e ottocentesche; da pranzo o merlettate; metalliche, ma anche in legno. Un cumulo di seggiole, sul palco, a rappresentare in maniera tangibile la policromia/parodia del mondo. Gli oggetti, al bisogno, diventano parimente metaforici: il bastone è una chitarra, un pezzo di telaio di una sedia può trasformarsi in telefono. Soccorsi (o forse ancor più impediti) dalla ridda musicale, i padroni di casa dispongono con foga le sedie attorno a un fulcro: sé stessi. Ne emerge un teatro da camera, a pianta centrale, o forse una cavea ellenica.
L’opera – in tristitia hilaris, in hilaritate tristis – conduce lo spettatore nel magmatico nocciolo del nostro tempo incerto, provocando stravaganti risate e intervalli di sconcerto.
Assonanza ammannita, recensione finita.
LE SEDIE
di Eugène Ionesco
traduzione Gian Renzo Morteo
con Federica Fracassi e Michele Di Mauro
regia Valerio Binasco
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Alessio Rosati
musiche Paolo Spaccamonti
assistente regia Giordana Faggiano
assistente scene Nathalie Deana
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
durata: 1h 20 min
applausi del pubblico: 5′ 13”
Visto a Moncalieri, Fonderie Limone, il 27 aprile 2021
Prima nazionale
Interpretazione, sceneggiatura, testo, tempi assolutamente originali. Lo consiglio a tutte le persone che amano il teatro!