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Frame: Alessandro Serra e il silenzio di Hopper

Frame (photo: Alessandro Serra)

Frame (photo: Alessandro Serra)

Se esiste un teatro d’atmosfera, eccolo, è “Frame”, lavoro di Alessandro Serra (vincitore di un Premio Ubu 2017 per “Macbettu”), ultima coproduzione di Teatropersona insieme a Cantieri Teatrali Koreja.

L’atmosfera come contenuto primo e come base comunicativa, come possesso e gestione del tempo è opera di delicatezza e di sapienza, di maestria nell’uso degli ingredienti. Di mano ferma. È un teatro basato sull’equilibrio degli strumenti tecnici, sulla perfezione degli incontri fra corpi, suoni, luci e oggetti (una perfezione, questa, che regala qualche stupore di apparizioni e sparizioni improvvise).
È un teatro che parte da un punto solido, dalla chiara identificazione del tono, subito raggiunto e testardamente portato sino in fondo, anche a costo di qualche monotonia. Della definizione quasi a priori, quasi a partire già dalla foto in locandina, di una lingua precisa in cui si terrà il dialogo con lo spettatore.
Un teatro saldamente avvitato alla sempre consapevole gestione dello spazio scenico, tutto esplorato, tutto reso portatore di significato, con i suoi angoli, canti, superfici. E con i suoi “oltre”, allusioni caute a un altrove che di quella cornice del titolo (Frame) fa l’elemento centrale – spavaldamente ossimorico. La cornice è un luogo di passaggio fra l’interno e l’esterno, ed è tagliata nella parete di fondo attorno con un’inclinazione e con delle proporzioni che svelano subito il riferimento: quello all’opera pittorica di Edward Hopper.

All’inizio è un rettangolo bianco, una tela vergine, poi è scardinata, ed ecco la diversa umanità scorrervi dietro e agirvi davanti. Dentro appaiono gli eventi che si radicano, fuori quelli che passano; dentro i singoli, simbolici o individuali, fuori il corso delle figure bidimensionali, dei passanti che vanno.

Saltano agli occhi la tazza di caffè del celebre “Automat”, il profilo nudo di donna di “A woman in the sun”, il riquadro luminoso di finestra e il letto di “Morning Sun”, fusi con la coppia di “Excursion into philosophy”, e un tavolo che sembra star proprio lì a dire i cento tavoli di legno, marmo, fòrmica che pullulano nell’opera dell’autore di Nighthawks. “Di Hopper non mi interessano le indubbie qualità pittoriche – svela Serra – quanto piuttosto la capacità di imprimere sulla tela l’esperienza interiore. Ricrearla in scena. Farla vedere, anche solo per un istante”.

C’è questo e altro nel nuovo spettacolo di Teatropersona, che un esperto troverebbe come in una caccia al tesoro, persino un guizzo di surrealismo franco-americano, un clown, forse incontro tra l’Arlequin di Cézanne, quello di Picasso o di Donghi e il triste Pierrot di “Soir Bleu”, dalla sigaretta penzoloni, chissà. Perchè quelle di Hopper, racconta lo stesso Serra, sono “opere straordinarie compiute attraverso l’ordinario. Quanto più consuete sono le ambientazioni, abitate da figure semplici, tanto più si rivela la magia del reale”.
Ma c’è anche, oltre la citazione precisa e individuabile, il tentativo di traduzione di quella linearità amara degli interni – interni di casa e interni d’anime – con strumenti schiettamente teatrali, alla ricerca di ciò che a quei quadri è doppiamente negato, per statuto artistico e scelta poetica: il movimento.
Si tratta, certo, di un movimento regolato con polso fermo, come si anticipava, senza altre accelerazioni che uniformemente attivate, senza sobbalzi, volute o barocchismi.

La regia trova questa particolare qualità di movimento attraverso l’esperienza di certo teatro di figura, un “cabaret magico” dal carattere meccanico di automa triste, e ne sono la prova più evidente i poetici ondeggiamenti di una barchetta di carta sul ciglio della finestra, un’improvvisa pioggia di coriandoli, il ricorso frequente a un illusionismo teneramente naïf.
Altre volte, specialmente nell’interazione dei corpi, la soluzione che si adotta fa pensare al realismo sviscerato ma cristallino fatto di movimenti quotidiani distillati in formule impietosamente rivelatorie del “Café Müller” di Pina Bausch. E c’è infatti, qua e là, non saprei se vincente, il tentativo di isolare il gesto, di elevarlo – anche per mezzo della circolarità della ripetizione – allo statuto di simbolo, avendo magari per meta quell’indimenticabile continuo cadersi e ributtarsi addosso dell’opera della Bausch.

Con queste coordinate si muovono sul palco Francesco Cortese, Riccardo Lanzarone, Maria Rosaria Ponzetta, Emanuela Pisicchio e Giuseppe Semeraro; si incontrano in scene staccate, senza proferire mai un suono – come in un museo!
Una vera esposizione di tele, senza alcuna “Promenade” che inviti a riprendere una distanza, ma con invece un ritmo costante di avvicinamento, di sprofondamento verso un silenzio più perfetto.
In scena al Teatro Vascello di Roma ancora stasera e domani.

FRAME
progetto e ideazione Alessandro Serra
con Francesco Cortese, Riccardo Lanzarone, Maria Rosaria Ponzetta,
Emanuela Pisicchio, Giuseppe Semeraro
regia, scene, costumi e luci Alessandro Serra
realizzazione scene Mario Daniele
collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini
un ringraziamento a Anna Chiara Ingrosso
tecnici Mario Daniele, Alessandro Cardinale
organizzazione e tournée Laura Scorrano e Georgia Tramacere
produzione Cantieri Teatrali Koreja
co-produzione Compagnia Teatropersona

durata: 1h 10′
applausi del pubblico: 2’

Visto a Roma, Teatro Vascello, il 27 febbraio 2018

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