Frankenstein (a love story). Motus, da creatore a creatura partendo da Mary Shelley

Il debutto di Frankenstein (ph: Margherita Caprili)
Il debutto di Frankenstein (ph: Margherita Caprili)

In scena stasera, 19 ottobre, al Festival delle Colline Torinesi, che lo coproduce

“Frankenstein (a love story)”, il nuovo spettacolo dei Motus coprodotto da ERT, diretto da Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande, ha debuttato a Bologna, in un’Arena del Sole stracolma, il 13 ottobre.
Lo spettacolo, realizzato con artisti di diverse discipline, usa il celebre romanzo di Mary Shelley come cornice e strumento per veicolare una serie di messaggi sulla contemporaneità, coerentemente con quello a cui ci hanno abituato le tante e feconde sperimentazioni della compagnia di Rimini.

Tre personaggi – Mary Shelley (Alexia Sarantopoulou), Victor Frankenstein (Silvia Calderoni) e la Creatura (lo stesso Casagrande) – si alternano in monologhi che riprendono soltanto frammenti del testo originale del romanzo, muovendosi in una scenografia molto minimale che, con teli di plastica bianca o trasparente, riproduce un paesaggio naturale glaciale e inospitale.

In scena vediamo ricreata la sequenza cronologica “studi del dottor Frankenstein – risveglio della Creatura – fuga e solitudine della stessa e tormenti del suo creatore” in cui vengono inserite parti dedicate al personaggio della scrittrice.
È proprio una tormentata Mary Shelley ad aprire lo spettacolo, mettendo subito il proprio stesso corpo al centro, inizialmente disegnandoci sopra e arrivando ad un nudo integrale bagnato da scrosci d’acqua che scivolano sui teli di plastica.

Questa apertura rende immediatamente chiaro che Mary Shelley è anche il tormento di Victor Frankenstein ed è anche il corpo della Creatura. Una sovrapposizione che abbraccia tutti e tre i personaggi e che verrà giocata lungo tutto lo spettacolo, tanto che la maschera verde del mostro verrà indossata da tutti loro, anche contemporaneamente.

Il lavoro di Motus parte quindi dalla storia del celeberrimo romanzo e da quelle atmosfere, dall’immaginario, dai personaggi, dalle implicazioni e dalle interpretazioni, dalla biografia della stessa autrice, per disegnare un’architettura complessa, ibridata con altri temi e suggestioni, che può essere letta e decostruita in vari modi, e che mostra un attento lavoro della dramaturg Ilenia Caleo, che si è ispirata a numerosi studi, tra cui quelli di Donna Haraway, Ursula Le Guin e Lynn Margulis.

Innanzitutto c’è il tema della creazione (artistica, scientifica, intellettuale, genitoriale) a creare un interessante cortocircuito con questa ulteriore opera creativa che vediamo in scena.
Esistono poi due piani in relazione ai contenuti: il primo, più profondo, è una riflessione di fondo sull’umanità, sulle sue caratteristiche, desideri, limiti. Sulla sua sete: di conoscenza, di amore, di azione sulla realtà, di uscita dalla solitudine. Sulla sua ineliminabile corporeità. All’interno di questa grande scatola, a suo sostegno ma anche sostenuta da essa, troviamo poi una serie ulteriore di temi, uno appoggiato all’altro: dal femminismo alle intelligenze artificiali, dai diritti riproduttivi al razzismo, dalla problematizzazione della maternità alla povertà, dalla solitudine individuale alle marginalità e all’esclusione, dalle dipendenze alla possibile estinzione della specie umana per i cambiamenti a cui stiamo sottoponendo il nostro pianeta, dalle manipolazioni genetiche e la bioingegneria alle identità sessuali e di genere.

Alcuni di questi temi di fondo sono immediatamente collegabili alla storia ideata da Mary Shelley nel 1818: ad esempio il desiderio di amore e di accettazione del mostro è facilmente sovrapponibile all’esperienza di ogni escluso, diverso, minoranza. Altre questioni hanno invece bisogno di collegamenti più costruiti che, se da un lato mostrano il profondo lavoro alle spalle di questo spettacolo, dall’altro finiscono per risultare un po’ forzati, o comunque spesso non abbastanza potenti da riuscire a colpire in pieno gli spettatori.

Le interpretazioni, e forse le scelte registiche sottostanti ad esse, spesso non risultano pienamente a fuoco; in particolare il costante, gemente, carnale, lamentoso stato alterato della Mary Shelley di Alexia Sarantopoulou, proprio perché ininterrotto e forzato, ne depotenzia il messaggio e ne indebolisce l’espressività corporea, rischiando di ingabbiare il personaggio in una monodimensionalità che è un’occasione sprecata, visto che proprio l’inserimento della scrittrice in scena, in quanto donna e in quanto creatrice, è una delle intuizioni più felici.

Lo spettacolo, che è volutamente – a sua volta – un Frankenstein in quanto “come la Creatura, un aggregato di pezzi narrativi eterogenei”, sceglie di portare all’attenzione del pubblico non tanto riflessioni articolate, ma una sequenza di stimoli, frammenti, suggestioni, il “corpo senza organi” di deleuziana memoria citato nelle note di regia, che si propongono di coprire uno spettro di temi davvero ampio.
Questa scommessa affascinante, se può risultare vinta dal punto di vista intellettuale per la coerenza della costruzione e la capacità di rinvenire e creare nuovi sensi e significati e lanciare reti interpretative sulla contemporaneità, nella sua resa finale spesso non trova la dimensione giusta per emergere con forza. La drammaturgia a tratti finisce per restare troppo in superficie, ad esempio nel modo un po’ didascalico in cui vengono presentate le difficoltà di Mary Shelley in quanto donna scrittrice dell’800, o i sentimenti di emarginazione della Creatura e le sue critiche sociali. In altri momenti, la sensazione è che risulti un po’ troppo visibile la costruzione intellettuale necessaria agli scopi culturali e sociali dell’opera, a scapito dell’emozione.

Le citazioni pop (la danza punk della Creatura o il sottofondo sonoro della battuta cinematografica “It’s alive!” quando essa prende vita) o gli inserimenti che rompono il minimalismo della messa in scena (come il ragno telecomandato quando si parla di modificazioni genetiche, gli stessi corpi nudi in scena, in vari gradi di tutti e tre i personaggi) non raggiungono la potenza evocativa che sarebbe necessaria per fare da collante a questo rizoma di concetti.

Ph: Margherita Caprili
Ph: Margherita Caprili

Un’eccezione è tuttavia la scena in cui Victor dà vita al mostro, disegnando semplicemente simboli e cuciture con un pennarello sul suo corpo nudo, buttato sul palco: una scelta elegante ed essenziale, sostenuta dalla parte di monologo dello scienziato dedicata alle sue visite nei sepolcri, che in quel momento ci porta davvero in contatto con la sua sofferenza, la sua follia, il suo desiderio e il suo corpo. Con la mostruosità contenuta nell’umanità, in quel gioco di ribaltamento tra contenitore e contenuto, creatore e creatura che è alla base di questo spettacolo.

In quei momenti, in cui si riesce ad uscire dall’osservazione della costruzione intellettuale dei creatori per entrare realmente in contatto con la creatura/spettacolo, gli spettatori – come Victor – riescono per un istante a guardarla negli occhi, e questa messa in scena di Frankenstein acquista davvero cuore e anima.

Un “to be continued” sullo schermo conclude lo spettacolo, dando appuntamento all’annunciata seconda parte del lavoro di ricerca che la compagnia ha svolto attorno al romanzo di Mary Shelley, ossia il film “Frankenstein (a history of hate)”, in uscita nel 2024.
Stasera alle ore 19 lo spettacolo replicherà al Teatro Astra di Torino.

FRANKENSTEIN (a love story)
ideazione e regia di Daniela Nicolò & Enrico Casagrande
con Silvia Calderoni, Alexia Sarantopoulou ed Enrico Casagrande
drammaturgia Ilenia Caleo
adattamento e cura dei sottotitoli Daniela Nicolò
traduzione Ilaria Patano
assistenza alla regia Eduard Popescu
disegno luci Theo Longuemare
ambienti sonori Enrico Casagrande
fonica Martina Ciavatta
grafica Federico Magli
produzione Francesca Raimondi
organizzazione e logistica Shaila Chenet e Matilde Morri
promozione Ilaria Depari
comunicazione Dea Vodopi
distribuzione internazionale Lisa Gilardino
una produzione Motus con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, TPE – Festival delle Colline Torinesi, Kunstencentrum VIERNULVIER (BE) e Kampnagel (DE), residenze artistiche ospitate da AMAT & Comune di Fabriano, Santarcangelo Festival, Teatro Galli-Rimini, Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’arboreto-Teatro Dimora | La Corte Ospitale”, Rimi-Imir (NO) e Berner Fachhochschule (CH), con il sostegno di MiC, Regione Emilia-Romagna

durata 1h 20′
applausi del pubblico: 2’ 30’’

Visto a Bologna,  Teatro Arena del Sole, il 13 ottobre 2023
Prima nazionale

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