“Che è che non è” cannibalizza Pirandello: Frosini/Timpano tutor alla STAP

Frosini e Timpano con i ragazzi (photo: Stap Brancaccio)|Photo: Accademia Stap Brancaccio
Frosini e Timpano con i ragazzi (photo: Stap Brancaccio)|Photo: Accademia Stap Brancaccio

La compagnia romana ci racconta l’esperienza con 12 allievi dell’Accademia Stap Brancaccio, con cui hanno creato (e dissacrato) una trilogia pirandelliana

Se fosse un genere teatrale, quello del “saggio di fine corso”, o dello spettacolo finale di un qualunque cursus formativo sarebbe tra i più spinosi. Da un lato le condizioni, derivate dal numero di interpreti, dalle loro diverse inclinazioni e maturità, dalla connaturata impossibilità di un casting mirato; dall’altro le finalità, quelle che ogni interprete abbia un suo spazio che meglio lasci brillare le doti naturali o acquisite, e quella generale, di mostra, di esposizione, nella quale lo sguardo dello spettatore immediatamente si metterà alla discutibile ricerca del favorito fra gli attori in scena, in una elezione tutta personale e affettiva (non fingo l’eleganza di esimermi: Claudio Cammisa, sicuro e ammiccante, e Fabiana Pesce, astratta, già tagliente, disegnata a china).

Forse è per quest’ultima ragione, quella che un saggio ha una finalità oggettiva consustanziale, che il critico solitamente si tiene alla larga dal visitare questi eventi, ed è una pecca di idealismo, come se nell’inconscio gli permanesse l’orma del disgusto verso l’opera non assoluta. C’è poi spesso, oggettivamente, il problema della dignità dell’opera, ed è quando le finalità sopraffanno troppo nettamente le qualità.

Non è questo il caso di “Che è che non è”, lavoro degli allievi del terzo anno dell’Accademia STAP Brancaccio di Roma, messo in scena sotto il tutoraggio di scrittura teatrale di Elvira Frosini e Daniele Timpano, che guidano anche come registi il gruppo dei dodici attori al saccheggio e alla dissacrazione della trilogia pirandelliana del teatro nel teatro (“Sei personaggi in cerca d’autore”, “Ciascuno a suo modo”, “Questa sera si recita a soggetto”).

Il lavoro che ne risulta è equilibrato nella scrittura, nella particolare accezione di equilibrio che è la capacità della coppia romana di concedere silenzi e messe a fuoco, colpi di spugna, cambi repentini di tono, gestione precisa e sempre attenta di tutti gli elementi in gioco (e qui sono molti, a partire dai numerosi interpreti e formule adottate).
È equilibrata poi anche la distribuzione dei ruoli, sempre segnati da ironia e dissacrazione, e dei pezzi: ciascun attore ne ha uno tutto suo, anche piccolo, anche di pura controscena, di pura presenza, tutti efficaci. C’è Delia, la protagonista di “Ciascuno a suo modo”, sdoppiata fisicamente in due attrici come sdoppiata è interiormente l’amante nel testo originale, c’è la presenza tangibile di quell’essere fuori e guardare dentro la scena, in una posizione irrisolvibile, c’è persino lo stesso Pirandello, trascinato in scena e lì lasciato a crepare – un’ulteriore manifestazione della grottesca necrofilia timpanesca?

In un lavoro in cui raccontare o anche solo ritrovare una trama è ozioso, perché costruito a prescindere o, nuovamente, contro di essa, la linea è però chiara, ed è tutto un entrare e uscire dal lavoro del girgentino, dall’evocazione tenacemente derisoria al riutilizzo dei materiali d’autore. Essi riappaiono filtrati in linee, asciugati del loro brodo borghese e narrativo, liberati dal peso dei fatti e del contesto, così da consentire però, in altre occasioni, proprio l’affondo in quei fatti e in quel contesto, resi sotto forma di puri cliché linguistico-teatrale (saturazioni, conturbamenti, grevità) come una sorta di indigeribile paccottiglia.

Più che un lavoro su Pirandello, “Che è che non è” mi è sembrato un lavoro contro Pirandello. Uno dei passaggi più esilaranti è un centone di citazioni dalla lingua dei suoi lavori, lessico e modi di dire invecchiati malissimo (“sbomitare”, “tranquillare”, “capino straziato”…) ma che dovevano far parte di una lingua comune di una certa borghesia, oggi scomparsa o appiattita. È una chiave di accesso, una dimostrazione empirica di una obsolescenza o irrappresentabilità di questo autore oggi, o è solo una trovata comica? Dal vostro personale punto di vista, si può ancora fare Pirandello oggi, e a quali patti?
Daniele Timpano: È vero, Luigi Pirandello non ci sta molto simpatico, tanto che avevamo intitolato proprio “Pirandello ha rotto il cazzo: i classici siamo noi” un nostro progetto di qualche anno fa sulla drammaturgia contemporanea italiana vivente. Non ci sta simpatico ma ci affascina e lo rispettiamo. Molti suoi romanzi e molta sua drammaturgia sono esperienze teatrali imprescindibili.
Certo, il suo mondo teatrale in parte si riferisce agli usi ed alle convenzioni del teatro del suo tempo, nei confronti dei quali si poneva in posizione critica, ma essendo scomparso per noi tutto il contesto sociale e culturale in cui si inseriva la sua opera, c’è un movimento dialettico nei suoi testi che in parte cogliamo ed in parte, ora, e necessariamente, banalizziamo e travisiamo.
Abbiamo in parte metabolizzato sia molti dei suoi contenuti che molte delle sue rotture formali, e così rischia sempre di apparirci cosa stantia e morta. Eppure è ancora vitalissimo, sia come forma che come contenuti. Proprio il suo linguaggio, la lingua che utilizzano i suoi personaggi e le sue didascalie, che troviamo tanto faticosa e per certi versi insostenibile, piena di vezzeggiativi, dettagliata fino all’ossessione anale del controllo d’autore su ogni possibile manipolazione e incomprensione dei posteri e di capocomici e registi che osassero mai prendere in mano un suo copione, è una cosa preziosissima. La lingua di Pirandello è sì prolissa, ma anche ricca, precisa, affascinante. Di sicuro è una lingua che è impregnata del suo tempo, e che ci appare datata e letteraria quanto quella, diversissima, dei romanzi di D’Annunzio, ma risulta particolarmente contorta anche se la confrontiamo con altri testi teatrali del suo tempo. Quello che ci infastidisce e ci allontana in questa lingua non sono arcaismi, neologismi, prestiti dal parlato di sapore verista incastrati in periodi intricati ed intellettualistici, queste sono anche cose che incuriosiscono e stimolano – e non a caso hanno incuriosito anche i giovani allievi della Stap -, quanto una certa aria di paternalismo e di controllo, una certa egolatria demiurgica per cui leggi o provi i suoi testi e te lo senti là, sempre col suo fiato sul tuo collo.
Eravamo forse partiti con l’idea di fare con gli allievi uno spettacolo ‘contro’ Pirandello, ma abbiamo poi riscoperto molte cose belle che non ricordavamo, sepolte dalla polvere.
Però, e qui sì siamo polemici, non si capisce come la sua indubbia statura intellettuale possa aver così tanto oscurato e schiacciato in un angolo, nelle programmazioni, quasi tutta la storia del teatro italiano del ‘900. Non si capisce perché sia così difficile vedere in scena, o nei programmi scolastici, o persino in libreria, un testo dei coevi Cavacchioli, Rosso Di San Secondo, Ruggero Vasari, Bontempelli o Marinetti, o degli autori che pure han fatto un po’ di storia del teatro del secondo dopoguerra, come Ugo Betti, Zardi o Diego Fabbri. Di quest’ultimo proprio in questi giorni torna in scena al Quirino di Roma il suo classico “Processo a Gesù”, e sembra un eccezionale recupero dalla tomba del teatro, non la normale produzione di un testo classico italiano. Per non parlare degli autori italiani tra anni ’60 e ’90, con pochissime eccezioni (Pasolini? Testori?) tutti spariti da ogni radar: Massimo Dursi, Giuliano Scabia, Raffaele Orlando o Ceronetti.
Come per ciascun autore, o come in generale si dovrebbe fare quando si fa qualunque spettacolo, pensiamo solo che un lavoro teatrale – cosa che farebbe forse orrore a Pirandello come si evince facilmente dalla lettura di un testo come “Questa sera si recita a soggetto” – appartiene a chi lo fa e a chi lo guarda, non a chi l’ha scritto, tanto più se morto da 100 anni. I nostri figli non siamo noi in persona, hanno una loro vita propria, ed i suoi testi non appartengono più a lui, ma a noi che in qualche modo dobbiamo saper cosa facciamo in scena e perché, e farne cosa viva, non citazione filologica o messinscene calligrafiche.

Quella della trilogia del “teatro nel teatro” è stata una vostra scelta o un oggetto di lavoro a voi affidato? In altre parole, in cosa questa particolare linea fra le tante della produzione pirandelliana è a voi affine, o non lo è, o ritenete che abbia materiale sul quale in qualche modo (anche per negarla, per ridicolizzarla) si possa lavorare?
Elvira Frosini: Sì, è stata una nostra scelta, il progetto era di mettere in scena i “Classici del secolo futuro”, un ri-attraversamento di “classici” riscritti dagli allievi con il tutoraggio degli artisti.
Pur nella distanza, questa “trilogia” ci interessa nei meccanismi teatrali, la sua idea dei rapporti tra realtà e finzione, gli influssi, anche reciproci, con i contemporanei. Si tratta di meccanismi e temi già digeriti da chi fa teatro, anche se forse per il grande pubblico sia gli uni che gli altri a volte danno la sensazione di esser passati invano.

D.T.: “Ciascuno a suo modo” è il classico minore tra i due testi maggiori della trilogia, contiene moltissime suggestioni sia dalle serate futuriste (il pubblico finto insieme al pubblico vero, lo spettacolo che inizia prima dello spettacolo, fuori dal teatro), e poi è una sorta di messa in ordine di una serie di influssi, c’è la parodia dell’argomento del duello, di quello delle amanti, c’è D’Annunzio. È anche una ricucitura della reazione del pubblico al Valle dei “Sei personaggi”, quando gridavano a Pirandello “Manicomio, manicomio!”. Ci siamo pure appoggiati agli altri due testi della trilogia, da cui vengono alcune suggestioni, ma i frammenti di testo rielaborati sono presi direttamente da “Ciascuno a suo modo”.

Questa non è la vostra prima esperienza come tutor. È possibile insegnare a fare il teatro, specificamente nell’ottica di “formare” figure che abbiano i vostri connotati, così compositi, di performer, autori, registi? Si tratta di pratiche, di spazi culturali da segnalare, materiali da fornire, di fondamenta teoriche, di tecniche?
E.F.: Nella nostra visione, pur non puntando a creare copie di noi stessi, segniamo delle tracce. Un esempio è quello dei personaggi, cioè la pratica di metter in scena non personaggi nel senso classico ma “figure”, o anche il fatto di mettere sempre noi stessi in scena ad attraversare quelle figure. In particolare credo che noi trasmettiamo una nostra visione del ruolo dell’attore, che, dato per scontato un bagaglio tecnico, è per noi sempre un creatore drammaturgico, crea tridimensionalmente, spazialmente, vocalmente il teatro.

D.T.: Cerchiamo anche di trasmettere la consapevolezza di alcune questioni sceniche, anche ovvie; la presenza di sé in scena in quanto corpo che là sopra ci vive, la necessità che le conseguenze di ciò che avviene in scena sempre si riverberino su di te… Cerchiamo di passare questa sensibilità. Come abbiamo già detto, gli autori dello spettacolo per noi sono quelli che stanno lì in scena e lo fanno, devono conoscere il significato culturale ed estetico della tua presenza in quello spazio astratto.
Potremmo dire, con parole grosse, consapevolezza di sé come opera. Un altro nostro personale tentativo è anche di passare un approccio curioso rispetto a testi critici, a lavori coevi ma scomparsi, a un contesto che magari rischia di passare in secondo piano, come gli altri autori e le altre opere. Oltre che il nostro autentico entusiasmo nei confronti di qualcosa che scopriamo e trasmettiamo: misurare queste cose passate e magari dimenticate con il te del presente.

È questo il principale rapporto tra la vostra attività didattica e quella artistica?
D.T.: Sì, esattamente. Non mancano poi, anche più praticamente, dei piccoli “travasi”. È capitato che alcune soluzioni o alcune idee trovassero poi spazio nei nostri spettacoli, anche uno o due anni dopo, specialmente quando lavoravamo, prima del Covid, su laboratori più lunghi, mettendo insieme come drammaturghi le scritture degli allievi emerse durante gli incontri.

Photo: Accademia Stap Brancaccio
Photo: Accademia Stap Brancaccio

La domanda forse è un po’ generica, ma non vuole essere paternalistica o nostalgica, anzi è proprio analitica: pensando a come eravate voi ai vostri inizi, c’è qualcosa che credete manchi ai giovani apprendisti del teatro di oggi, o che comunque li differenzi da voi, e viceversa?
E.F.: Non credo manchi loro qualcosa, anzi hanno forse alcune possibilità in più di noi, possibilità non sempre sfruttate fino in fondo. Non è raro che un docente universitario di ambito teatrale ci dica che ha difficoltà a far andare i suoi allievi a vedere gli spettacoli, che è una cosa molto curiosa…

D.T.: Forse saremo noi a calamitarli, ma ci si presentano nei nostri corsi o laboratori figure anche molto diverse tra di loro: attenti, alcune teste pensanti e grande curiosità, anche stramberie, alcuni molto puntati verso ciò che vogliono fare, altri meno. Il 2022 è un grande mischione, insomma, c’è veramente spazio per una grande varietà. Ci sono quelli che, pur studiando magari da tre anni, non sanno nemmeno chi sia Ascanio Celestini, ma anche quelli in cui riconosco percorsi simili ai nostri, come il giovane autore/attore che riscopre, vent’anni dopo di me, le interviste impossibili di Manganelli o che si rivede i video di Carmelo Bene e Leo De Berardinis.

Invidiate qualcosa, a questi giovani allievi?
D.T.: No, però una cosa sentimentale la dico, anche se sembra una cosa piagnona, alla Collodi: ogni volta ho l’accoramento di vedere che poi qualcuno particolarmente dotato, bravo, intelligente, con presenza scenica non continua, e si mette a fare un’altra cosa. Magari comincia un lavoro provvisorio che poi diventa definitivo. Ci piacerebbe qualcuno un po’ più pretenzioso, un “post-drammatico all’italiana” più simile a noi, che tiene duro e porta con sé l’esperienza che ha fatto con noi. A invidiargli qualcosa, direi di no, a parte quel po’ di gioventù, magari loro lo vedranno il 2050.

E.F.: Che non so poi se è una cosa bella…

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