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Il Futuro Fantastico di Santarcangelo 50, per riappropriarsi dello ‘stare insieme’

Gli altri (photo: Santarcangelo)

Gli altri (photo: Santarcangelo)

50 anni di Santarcangelo. Un “passato fantastico” che partì, nelle prime edizioni, con la partecipazione di artisti come Dario Fo, Franca Rame, Gaber, Carlo Cecchi, Teresa De Sio, Lina Sastri, Giovanna Marini
Poi dalla metà degli anni ’70 il teatro cambiò sotto l’influsso di Grotowski: arrivò il terzo teatro, e si scoprirono nuovi nomi, altri linguaggi, emersero istanze differenti.
Il direttore artistico Piero Patino, che rimase in carica fino al 1977, sosteneva che “il teatro sgorga dalla collettività per ritornare alla collettività”.
Un pensiero che sembra presente anche in questo #Santarcangelo50 voluto dalla direzione artistica dei Motus. Che hanno deciso, seppur proiettati verso un “futuro fantastico” (sottotitolo di questa edizione), di omaggiare ad esempio Secondo e Raul Casadei – quest’ultimo di recente scomparso – con quattro serate di liscio e due scuole del territorio, Balla con Noi e Le Sirene Danzanti, sui ritmi di polka e mazurka. Identità di Romagna.
E di riflessioni sull’identità si è intriso fortemente il festival nelle sue giornate di apertura, tra passato e presente.

“In questi due anni – affermano i direttori artistici Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande – abbiamo lavorato in uno stato di alterata sovraeccitazione, fra slanci in avanti e sguardi al tempo passato, fra immagini/ricordi dei nostri 30 anni di frequentazione del festival, assieme alle riflessioni sui cinquant’anni della sua storia turbolenta, le trasformazioni della scena, l’avvicendarsi delle direzioni artistiche che, con il loro mutare, hanno contribuito a cambiare l’immaginario stesso dei cittadini e del pubblico che segue il festival, sempre più mescolato, numeroso e proveniente da fasce geografiche e sociali anche lontane dagli habitué delle sale con le poltrone rosse…”.

Perché questo è stato l’obiettivo dell’edizione 2021: riappropriarsi del senso dello ‘stare insieme’ dopo aver vissuto una pandemia (e ancora esserci immersi) che tanto ha modificato la vita delle persone. Uno stare insieme e una possibilità di movimento che, fino a due anni fa, davamo per scontati, e che ora impattano fin dall’arrivo a Santarcangelo, sempre suggestivo, esplodendo quando il buio si illumina delle luci del Bisonte Cafè, allestito nella cornice dello Sferisterio: è lì che la socialità del festival si riapprovvigiona, ai tavolini all’aperto tra panini, birre e cocktail rigorosamente serviti nei bicchieri da asporto targati Santarcangelo50. Covid docet.
E’, questo, un “presente fantastico”, colorato, vivo e sonoro.

Per questo festival “mutaforme”, allora, un’apertura che coinvolge i più giovani, fortemente colpiti dalle conseguenze dell’emergenza sanitaria: è un atto politico, quello scelto dai Motus, che hanno voluto supportare una sfera del comparto artistico fra le più colpite. Ecco quindi che l’8 luglio il festival si apre con “Gli altri” di Corps Citoyen, collettivo artistico pluridisciplinale e multiculturale con base tra Tunisi e Milano che riflette sulle dinamiche sociali. E chi, meglio di loro, può quindi domandarsi: gli altri chi sono?

Sul palco un attore (Rabii Brahim, di origine tunisina) si sottopone ad un provino, soddisfando ogni esigenza che gli verrà via via richiesta; eppure il ruolo non sembra scritto per lui: “Io non sono Amleto”, reciterà ironicamente da Heiner Muller. Attraverso un monologo, che poi diventerà dialogo, con l’inserimento di video e brani, lo spettacolo – che vede alla regia Anna Serlenga – porta a riflettere, in maniera scanzonata e leggera, sugli stereotipi e i cliché che imperversano anche nel campo dello spettacolo, dove i ruoli affidati ad attori ed attrici arabi o di colore non possono poi troppo allontanarsi da una serie di figure retoricamente ben stilizzate: lo spacciatore, il kamikaze, la prostituta…. perpetuando stereotipi ed evidenziando quel dispositivo di potere che entra in gioco in una situazione come quella di un provino. Ecco allora come il riferimento iniziale all'”Hamletmachine”, testo in cui compare la tematica dell’attore consapevole della parte che sta interpretando, diventa qui cortocircuito.
Attraverso generi diversi e in equilibrio tra finzione e realtà, lo spettacolo mette a fuoco quel “paternalismo coloniale” che ancora sopravvive persino sulla scena, il luogo simbolo di ogni rappresentazione possibile.
Anche nel mondo dello spettacolo avviene quella fittizia costruzione dell’identità dell’altro, una rappresentazione distorta di quella che è la complessa e sfaccettata identità individuale. E’ la costruzione di una narrativa su un popolo e la sua origine. Una costruzione che si edifica ancora attraverso modalità coloniali, seppur il concetto – al solo pronunciarlo – ci possa sembrare così lontano. Eppure la rappresentazione dell’altro vive non solo tra le piazze e fra le voci della gente, ma anche nei “palazzi”, perfino in ambienti che parrebbero più all’avanguardia, come quelli artistici e culturali.
“Gli altri” tenta quindi, mischiando voci e punti di vista (e interpellando, come in un docu-film, una serie di performer in video), di riaffermare il diritto a una diversa narrazione possibile, anche sulla scena.

Il pubblico disposto per lo spettacolo de El Conde (photo: Claudia Borgia e Lisa Capasso)

Finzione e realtà attraversano la drammaturgia, seppure in modo del tutto differente, anche del nuovo progetto dell’atteso El Conde de Torrefiel.
Gravita infatti attorno alle orbite della finzione estrema il primo episodio della nuova sperimentazione del duo catalano, “ULTRAFICCIÓN nr. 1 / Fracciones de tiempo”.
Le frazioni temporali attraverso cui il pubblico, seduto fra le radure del parco Baden Powell, viene invitato ad immergersi, sono quelle delle narrazioni che scorrono sullo schermo sottoforma di racconto letterario.
Il massiccio apporto sonoro, ora ipnotico ed evocativo ora violento e martellante, contribuisce a delineare la dimensione di un contemporaneo rito spirituale in cui lo stoner rock della band dei Kyuss si intreccia con l’attentato del Bataclan di Parigi (gli Eagles of Death Metal, la band sul palco del locale parigino nella tragica sera del 13 novembre 2015, nacque da una costola dei Kyuss); l’odissea di un barcone carico di migranti diretto verso le coste del Mediterraneo fa da contraltare ad un volo di linea tragicamente segnato dall’esplosione di uno dei motori; l’evocazione di un rave improvvisato all’interno del villaggio ecosostenibile temporaneo di Santarcangelo “How to be together” scatena un beat elettronico che coinvolge nella danza anche il bosco circostante, complice un vento arrivato con tempistica perfetta. Frazioni di tempo dilatate, il cui intreccio genera realtà nuove ed artefatte, esiti di una modernità del dolore cui solo la poesia di un gregge di pecore scorrazzante fra le sedute del pubblico può offrire sollievo.

L’“Emilio” di Alexia Sarantopoulou, liberamente ispirato all’opera omonima di Jean-Jacques Rousseau, permette di osservare da vicino la ricerca della performer greca sul percorso cyber, selvaggio e solitario di educazione del giovane, in un’alternanza di quadri in chiaroscuro e nature morte.
In scena Ondina Quadri (figlia di Jacopo e nipote di Franco): corpo che dorme, veglia, vive, si muove e danza come Emilio potrebbe danzare, animale umano in via di perfezionamento, che tutto imparerà solo attraverso la sperimentazione, mai per insegnamento diretto. Una performance che merita di essere vista forse in location più raccolte, sicuramente meno ventose e fredde rispetto alla prima serata.

Emilio (photo: Sofia Borges)

Ma a caratterizzare il festival anche la capacità di rivivere le piazze. E’ successo attraverso la presentazione al Bisonte Cafè del libro “Santarcangelo 50 festival”, a cura di Roberta Ferraresi, un lavoro di ricerca durato tre anni per ricostruire la storia del festival raccogliendo immagini d’archivio, interviste e approfondimenti critici.
Altra piazza, la centrale Ganganelli, per Cristina Kristal Rizzo e il percussionista Enrico Malatesta, che si sono riappropriati dell’agorà per “Boga (pezzi elementari per l’incendio del tempio)”. Il cannone di bambù diventa protagonista di una performance sonora e visiva che incontra la danza della Rizzo per guardare alla tradizione orientale del Meriam Buluh, generatore di rumore usato nelle feste popolari e religiose in Malesia, Indonesia e Filippine.
Dispositivi pirotecnici e sonori si intrecciano ai movimenti della performer e agli sguardi della piazza, dando forma ad un rituale urbano di celebrazione. Sì, perché gli eventi urbani, quelli senza biglietti, meno formali, più liberi di accogliere il flusso senza regole degli spettatori e dei passanti curiosi, contribuiscono fortemente a creare l’atmosfera di un festival, ne forgiano l’identità, sottolineando l’importanza di ritrovarsi – artisti, giornalisti, pubblico di ogni tipo – tutti uniti in un rituale che a Santarcangelo, pur con fortune alterne nel corso dei decenni, è riuscito a rinnovarsi per 50 anni.

Cristina Rizzo (photo: Claudia Borgia e Lisa Capasso)

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