Dal Gabbiano a Zio Vanja. Con Leonardo Lidi e Simona Gonella, Cechov riempie i palchi milanesi

Il Gabbiano (ph: Gianluca Pantaleo)
Il Gabbiano (ph: Gianluca Pantaleo)

In scena al Piccolo Teatro e al Fontana due allestimenti essenziali in cui risalta la bravura degli attori

“Si esigono eroi, eroismo, ed eroismo che produca effetti scenici. Pure nella vita non si spara, non ci si impicca, non si dichiara il proprio amore e non si enunciano pensieri profondi tutti i giorni e a getto continuo. No, quasi sempre nella vita si mangia, si beve, si fa all’amore, si dicono delle sciocchezze. È tutto questo che si deve vedere sul palcoscenico. Bisogna scrivere una commedia in cui le persone vanno, vengono, pranzano, parlano della pioggia e del sole, giocano alle carte non per volontà dell’autore, ma perché tutto questo avviene nella vita reale. […] Bisogna lasciare la vita qual è, gli uomini quali sono, veri e non gonfi di retorica”.
(Anton Čechov)

Ci siamo sempre stupiti di come un teatro così rarefatto, così alieno da forti passioni, percorso da personaggi melanconici e insoddisfatti come quelli del drammaturgo russo, venga così visitato ancora oggi e, al contempo, come ogni volta che viene posto in scena, noi stessi ne siamo fortemente attratti.

A Milano, negli stessi giorni, due suoi celebri testi sono stati messi in scena da altrettanti registi assolutamente diversi per età e temperamento, Leonardo Lidi e Simona Gonella, che stimiamo e seguiamo da diverso tempo.

Leonardo Lidi, che abbiamo conosciuto come attore da quel bellissimo progetto di Antonio Latella “Santa Estasi”, nel corso di questi anni si è misurato con successo come regista su testi di autori classici molto diversi tra loro, da “Spettri” di Ibsen allo “Zoo di vetro” di Williams, da “Il Misantropo” di Molière al mito di “Fedra“, da “La casa di Bernarda Alba” di Garcia Lorca al recente “La signorina Julie” di Strindberg.
Ora Lidi, che ha dichiarato di amare sopra ogni altro autore Anton Pavlovič Čechov, non si limita a mettere in scena solo “Il Gabbiano”, che abbiamo visto di recente al Piccolo Teatro di Milano, ma – in un prossimo futuro – ha intenzione di proporre anche “Zio Vanja” e “Il giardino dei ciliegi”. E non per niente il sottotitolo aggiunto allo spettacolo, prodotto da Stabile dell’Umbria, Emilia Romagna Teatro e Stabile di Torino, è proprio “Progetto Čechov, prima tappa”.

Eccoci dunque avere ancora una volta davanti al nostro sguardo, con tutte le loro disillusioni, Konstantìn Gavrìlovič Treplev, Kostja (Christian La Rosa), Trigorin (Massimiliano Speziani), Nina (Giuliana Vigogna), Maša (Ilaria Falini), Irina Arkadina (Francesca Mazza) e Sorin (Orietta Notari), quest’ultimo padrone di casa della tenuta in cui si svolgono i quattro atti, personaggi – anzi, persone – che ormai fanno quasi parte della nostra famiglia, tanto ne conosciamo le speranze e i fallimenti.
Kostja vorrebbe diventare un drammaturgo di successo e in parte lo diverrà, ma sparandosi poi poco dopo alla tempia; Trigorin, che drammaturgo di successo lo è, vorrebbe essere ricordato come Turgenev; Nina, figlia del proprietario terriero della tenuta vicina, anche lei attratta dall’arte teatrale, alla fine sarà costretta a passare dai grandi teatri di Mosca a recitare in provincia, ad Elez; Masa, figlia dell’amministratore di Sorin, innamorata disperatamente di Kostja, sarà costretta, per uscire dalla routine quotidiana, a sposare un mediocre maestro; Irina, attrice famosa ma ormai al tramonto, giudica tutti, ma mai se stessa, mentre il fratello Sorin, ex consigliere di Stato, dalla salute precaria, non è riuscito né a sposarsi né a diventare uno scrittore.

Nel “Gabbiano” di Lidi, il testo più metateatrale di Cechov, è il palcoscenico nella sua nudità a farla da padrone, perché è qui, nel teatro, il centro motore di ogni cosa: sono solo i costumi di Aurora Damanti, le apparenti “non scene” e le luci discrete di Nicolas Bovey, insieme al suono curato da Franco Visioli, a farci piombare davanti a quel lago presso cui si trova la tenuta estiva di Sorin, un lago che non si vede ma si riverbera sul pubblico come uno specchio dei sentimenti repressi dei protagonisti.

All’inizio sarà una semplicissima panca ad essere il compendio di tutto, a diventare il perno dell’azione, poi saranno due sedie, poi ancora il soffitto delle luci che giungono fino a terra, dove si si siederanno alla fine gli adulti, per ingobbirsi in seguito in una danza senza senso, mentre Kostja e Nina, il nostro piccolo gabbiano che non riuscirà mai a volare nei cieli aperti del mondo, si daranno l’ultimo addio.

Tutti i personaggi non escono mai completamente dal palco, ma dal di fuori a volte si sfuggono, altre si cercano, mentre osservano la scena che si riempie delle azioni degli altri. A dare un tocco di ironica commedia al dramma delle illusioni è solo Trigorin, che zampetta qua e là da una parte all’altra del palco, sempre indeciso fra l’attrazione per Nina e la fedeltà per Arkadina.
Alla fine purtroppo vincerà la morte, con quel duetto finale tra Kostja, che si sparerà per davvero, e Sorin, che verrà presumibilmente divorato dalla propria malattia.

Amore, dolore, speranze e disillusioni si consumano nel grande gioco della vita sul palco del Teatro Strehler, testimoniati dalla forza che il teatro ha per esprimerli anche nel suo semplice scorrere giorno per giorno.

Zio Vanja (ph: Luca Del Pia)
Zio Vanja (ph: Luca Del Pia)

Eccoci poi a “Zio Vanja – un’indagine sulla ferocia”, produzione di Elsinor e Teatro Metastasio di Prato, messo in scena da Simona Gonella, che in Italia conosciamo da tempo come dramaturg, mentre nel Regno Unito si è fatta molto onore anche come docente e regista.
Come accade spesso, e come abbiamo visto nello spettacolo precedente, siamo anche stavolta in una proprietà, quella del professor Serebrijakov (Stefano Braschi), famoso professore in là con gli anni, che vi ritorna malato con la sua giovanissima seconda moglie Elena (Stefanie Bruckner), rompendo le quiete abitudini di Sonja (Stefania Medri), figlia di primo letto del professore, e dello zio Vanja, quel nostro carissimo “amico” che, come Nina e Kostja, abbiamo imparato a conoscere diverse altre volte, qui impersonato da Woody Neri.
Della partita, ingaggiata sull’esternazione della ferocia tra i familiari, ci saranno anche Maria, la madre della prima moglie del professore, e la vecchia balia Marina (Anna Coppola interpreta entrambi i ruoli), l’ex proprietario terriero Telegin ora in miseria (Donato Paternoster) e il medico Michail Astrov (Marco Cacciola).
Il ritorno del professore con la giovane moglie scatenerà l’esternazione di vecchie ruggini e tensioni mai sopite, trasformando lo spazio scenico in un recinto claustrofobico e velenoso.
Ad un certo punto, spostando i personaggi come pedine di un grande gioco, Gonella cercherà di rimetterli in un ordine apparente, che tuttavia reggerà per poco.

Anche qui, come nella precedente messa in scena di Lidi, non ci sono riferimenti naturali, ma tutto avviene in un luogo chiuso, che piano piano Telegin, reso da Gonella balbuziente e sciatto ma munito di computer, riempie di suoni d’ambiente cangianti e rarefatti.

Una grande parete rossa chiude in fondo la scena, mentre un tappeto (anch’esso rosso) copre il pavimento del palco. Unici elementi visibili sono un samovar appeso come un estintore, e una vecchia sedia da barbiere, dove è posto il malato padrone di casa.
E’ tutto qui che si svolge il dramma dei personaggi, rosi da sentimenti gravidi di ferocia, di rabbia inespressa e di una violenza repressa dovuta al non agire, alla mancanza di prospettive certe, una violenza sempre presente che si riversa sugli altri attraverso l’incapacità di ascoltarsi, come del resto accade nella vita vera.

Anche in questo spettacolo tutti i personaggi sono sempre in scena, ai lati del palco, seduti su sgabelli quando non hanno parte diretta all’azione, mentre Anna Coppola, quando veste il ruolo di balia, conoscendo i pregi e soprattutto i difetti di ognuno, fa da didascalia alle azioni, inframmezzate dalle note di regia di Stanislavskij, scritte per il suo famoso allestimento del testo, creando in questo modo “un altro modo di giocare con i diversi piani, attraverso i quali un testo può farsi vita o presenza nel qui e ora della rappresentazione”.

L’arrivo di Elena, la straniera, che Gonella fa arrivare da Vienna con accento tedesco, è motore di sentimenti contrastanti di odio e amore. L’amore mescolato a macerato e impotente disinganno di Sonja per il dottor Astrov, il quale corteggia Elena, pur all’inizio in modo titubante, per non perdere la fiducia dell’anziano padrone di casa. E anche Vanja, che odia ferocemente il padre, che non lo ha mai sostenuto in nessun modo, tentando addirittura di ucciderlo due volte, quando viene a sapere che il vecchio vuole vendere la tenuta per comprare una casa in Finlandia, la corteggerà disperatamente, in modo però burbero e disincantato.
E’ da questo momento che, in scena, la ferocia si sposa in modo perfetto con il testo, senza più bisogno di spiegazioni, con quella specie di tavolo operatorio dove si trova Sonja, forse l’unica vera martire di questa storia, sballottata dallo zio, mentre intorno ogni personaggio esprime la propria verità.

Ma ci sono anche momenti di spensieratezza, come nel rapporto tra Elena e Sonja, e di poesia, come quando Astrov ricorda come il territorio intorno alla tenuta una volta fosse davvero incantevole.
E quando si sentirà il tintinnio della carrozza, che ci avverte che Elena e Serebrijakov se ne sono andati e anche Astrov è già per altri lidi, sarà Sonja che, pur disillusa per un amore che dovrà ancora arrivare, darà a suo zio la morale della favola, iniettata però di possibile speranza, che qui, nello spirito dell’allestimento, mentre piove a dirotto, verrà gridato con rabbia: “Quando verrà la nostra ora, moriremo con mansuetudine, e di là, dalla tomba, diremo che abbiamo sofferto, che abbiamo pianto, che sentivamo tanta amarezza, e Dio avrà pietà di noi, e io e te, caro zio, vedremo una vita luminosa, stupenda, meravigliosa, ne saremo contenti e ci volteremo a guardare le nostre disgrazie di oggi con tenerezza, con un sorriso… e riposeremo”.

Abbiamo assistito a due trasposizioni di alto livello, colme di pensiero e mai prevedibili, che, seppur in modo diverso, sono riuscite a trasmetterci movenze e linguaggio di Cechov con profondità e allo stesso tempo semplicità, come in una vera e propria radiografia dei sentimenti.
In questo modo, anche attraverso un nugolo di attori di grande generosità, veri motori delle messinscene, i due spettacoli ci hanno riconsegnato l’infinita tenerezza che il loro autore dimostra verso i suoi personaggi, visti proprio in quella quotidianità intrisa di debolezze e speranze che invadono anche la nostra, di vita.

Il gabbiano
Progetto Čechov, prima tappa
di Anton Čechov
regia Leonardo Lidi
con (in ordine alfabetico) Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Noemi Grasso
produzione Teatro Stabile dell’Umbria, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
in collaborazione con Spoleto Festival dei Due Mondi

durata: 1h 50′

Visto a Milano, Piccolo Teatro, il 13 aprile 2023

 

 

ZIO VANJA
Di Anton Cechov
Regia e drammaturgia Simona Gonella
Con Stefano Braschi, Stefanie Bruckner, Marco Cacciola, Anna Coppola, Stefania Medri, Woody Neri, Donato Paternoster
Spazio scenico Federico Biancalani
Disegno luci Rossano Siragusano
Costumi Annamaria Gallo
Ambienti sonori Donato Paternoster
Produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Teatro Metastasio di Prato
Con il contributo di NEXT-Laboratorio delle Idee

durata: 1h 50′

Visto a Milano, Teatro Fontana, il 16 aprile 2023

 

 

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