Gadda vs Genet. Storie di galera dal Teatro Libero di Rebibbia

Gadda vs Genet
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Gadda vs Genet

Che dire? In questa sede più che mai, altro non possiamo fare se non vestirci da speleologi e calarci nelle fratture che aprono varchi aguzzi nel teatro classico per portare i visitatori attenti in grotte di insidiosa sperimentazione.

Meraviglia sono, a volte, i riflessi di quel mondo che abbiamo abbandonato proiettati su pareti di roccia grezza. E noi ce ne innamoriamo. Dall’epoca dell’Assassinio di Marat messo in scena dal Marchese De Sade e i suoi casi da manicomio, avevamo capito che non sarebbe mai stato facile parlare di un teatro che quasi nega se stesso, nel mescolare arditamente vita e finzione, emozioni reali e suggestioni ricreate e, soprattutto, analisi del significante e presentazione di un significato che, ora abbiamo la prova, seguita a vivere anche una volta sradicato dal contesto peculiare della sala teatrale.

Gadda vs Genet è il nuovo progetto del Teatro Libero di Rebibbia, che mette in scena la vitalità e le motivazioni tutte particolari di detenuti ed ex detenuti. L’epiteto “libero” non è assegnato a caso, ché tutta la drammaturgia ruota proprio attorno al concetto di libertà, sì come negazione della reclusione, ma anche come ideale che, per chi ha rischiato di perderlo, ha acquistato una forma materiale.

Profondo e verticale sono il senso e il risultato di una delle scene più felici dello spettacolo, in cui Sasà (Sasà Striano) affida un attimo la propria libertà alle mani di uno dei compagni di cella e quello se la perde. Commovente è vedere come ciascuno, a quella libertà, assegni un’immagine propria. Dal cartoccetto sporco al cubo rosso, dalla “cosa umida” a una scatola tanto grande che non passa dalle porte. Gli attori che battono un grande stradario alla ricerca di vie e piazze intitolate a scrittori incarcerati perché parlavano di libertà; gli attori che fanno di tutto per individuare le “radici” del razzismo e finiscono per concretizzarlo in una malattia contagiosa che presenta come sintomo una poco visibile macchia sotto la lingua; gli attori che si lasciano andare a piccoli monologhi imbarazzati sull’etimologia dei massimi sistemi. Gli attori. Li chiamiamo così perché ci è stato insegnato che chi agisce sul palco è un attore. E il loro spirito è davvero quello di una cooperativa che fa tutto, dal pulire il teatro al farlo vivere, dal reclutare la claque al prendere in giro quel buffo pianista muto che parla con le proprie note (il maestro Franco Moretti). La scena è loro, e noi gliela lasciamo come si lascia un oggetto a un bimbo, restando in attesa che quello lo trasformi nel più divertente dei giocattoli.

Poi la palla passa in mano al “capobanda”, il partenopeo Sasà. Poco importa che lo si sia visto in altri film come Gomorra, che stia passando dalla cella al palco, dal palco a Hollywood. Poco importa strumentalizzare un nome. Piuttosto svuotiamo la testa e lasciamo che lui ce la riempia di riflessioni. È qui che entra in gioco Jean Genet.

Monstrum della genialità francese, celebre galeotto-scrittore, che fece la croce e la delizia degli intellettuali del tempo, dimostrando – e qui sta il cuore della tirata di Striano – che noi “accettiamo che un guitto da palcoscenico, per di più nostro nemico, ci sbeffeggi come guitto e come nemico…”.
La tirata sulla criminalità come entità necessaria per l’esistenza di un’onestà sociale si amalgama con quella di normalità e devianza, forgiando un golem di finissima fattura e verità, che vorremmo ripetesse a mantra le proprie parole. Non che Genet – e quindi il suo araldo nello spettacolo – tenti davvero di giustificare i criminali, né di infondere nell’uditorio comprensione o pena, ma di certo dimostra come non sia affatto facile segnare in coscienza un limite che separi i due lati di una barricata della quale, alla fine, ci sembra di star percorrendo il crinale.

Rilanciato in una critica tagliente di Carlo Emilio Gadda citata e presto censurata dai galeotti stessi, è un discorso complesso, non solo meta-teatrale, ma proprio meta-linguistico, quello messo in piedi da questo spettacolo che si bagna continuamente alla fonte del “non-professionismo” per levarsi di dosso ogni difetto di pretenziosità, verso un’identità pura anche solo in quanto mezzo espressivo. Gli applausi sono sinceri, nonostante resti, latente e inquietante, la sensazione di non star portando fuori dalla sala una posizione chiara. Se l’intento della drammaturgia di Fabio Cavalli e della sua regia era quello di darci pane secco, da masticare limando i denti della nostra critica, è stato pienamente raggiunto.

GADDA vs GENET
drammaturgia e regia: Fabio Cavalli
interpreti: Sasà Striano, Fabione Rizzuto, Uchenna Benneth Emenike, Alessandro Marverti e Emanuele Simeoli
scene e costumi. Federica Valente
musiche dal vivo: M° Franco Moretti
produzione: Teatro Eliseo, Teatro Libero di Rebibbia
durata: 1 h 05’
applausi del pubblico: 2’

Visto a Roma, Teatro Piccolo Eliseo Patroni Griffi, il 18 dicembre 2008

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