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L’aedo Ventriglia. Un Otello ipnotico si alza e cammina

L'Otello Ventriglia (photo: Giorgio Termini)

L'Otello Ventriglia (photo: Giorgio Termini)

Ho un tarlo in testa da molti anni. Ed ogni volta che si rifà vivo mi coglie di sorpresa, perché penso che sia scomparso ed invece è sempre lì, indomito e tenace come un monito. Io penso che Gaetano Ventriglia sia uno dei più grandi attori che abbiamo in Italia, attore nell’accezione più completa del termine. E quando sono uscito dal teatro Florenskij di Livorno dopo aver assistito al suo “Otello alzati e cammina” la mia opinione si è rafforzata.

Nonostante siano passati ben nove anni dal debutto, nel lontano 2008, lo spettacolo continua ad essere quanto mai vivo, attuale, potente, e mi ha fatto assai riflettere il fatto che, nel panorama di cartelloni e festival che ci propongono il “nuovo”, declinato in nuove compagnie, nuovi linguaggi e quant’altro, a ben guardare poche cose appaiono, e sono, nuove come l’“Otello alzati e cammina” visto a Livorno.

Quella dell’attore pugliese è la “lettura”, come ama definirla, personale del classico scespiriano. Una lettura che diventa occasione di riflessione sulla verità della condizione esistenziale, verità che si stratifica su più piani. Verità dell’essere umano. Verità del senso dello stare in scena. Verità di un classico e delle sue discese nell’animo umano. Verità della condizione dell’uomo, dei suoi ideali e del senso della bellezza, delle sue sofferenze quotidiane, del senso della vita, su come essa venga attraversata e vissuta. E di queste verità Ventriglia è puro e commovente cantore, vero aedo. Un aedo mai retorico (!), sempre in bilico tra ironia e tragedia, tra farsa e dramma o, per citare lacerti dello spettacolo, tra “Adesso tu” di Ramazzotti e “Mulholland Drive” di David Lynch. Il famoso “No hay banda… There is no band etc etc” ricorre spesso all’interno del lavoro. Perché in fondo, nelle pieghe dell’esistenza, l’orchestra non c’è, sembra dirci Otello.

Una scena spoglia ospita le vicende del Moro, inviato sull’isola di Cipro a combattere i Turchi. Il poveretto cade nelle perfide trame d’invidia di Iago, che lo convince dell’infedeltà della moglie Desdemona con il luogotenente Cassio. Egli così la uccide sul letto nuziale. Ma l’Otello di Ventriglia non muore, destinato suo malgrado a rimanere sull’isola per migliaia di anni a guardare un mare che è sempre mosso.
È un Otello stanco, consumato, che sogna l’arrivo di un’astronave che lo porti verso un’altra vita, via, lontano da quel mondo di schifo che lo ha fatto crollare, quel mondo ben rappresentato da Iago, con le sue trame, con le sue occasioni da cogliere al volo che, sottolinea Ventriglia, “fanno dell’uomo la merda che è”.

A differenza della versione del 2008 – che si apriva con il protagonista intento a mangiare una ricotta sottolineandone la bontà – stavolta, con un cambio efficacissimo dritto in medias res che si ripercuote sull’intero equilibrio del lavoro, la pièce si apre con il dialogo tra Desdemona ed Emilia sulla fedeltà delle donne, con Ventriglia che indossa un velo bianco da sposa e da subito si coglie in bocca al protagonista la forza dirompente, attuale e sorprendente delle parole di Shakespeare. Perché dote dell’attore pugliese e uno dei punti di forza del suo percorso artistico – che si tratti di Shakespeare, Dostoevskij o Wilde – è la sua capacità di dare corpo, realtà e soprattutto verità alle parole che offre al pubblico. Quella verità che il teatro, quando è tale, sa regalare od imprimere, scegliete voi.

Questo Otello immortale di Ventriglia offre lo spunto per una riflessione centrifuga che si allarga fino a divenire riflessione su cosa si debba fare della nostra esistenza, su quali siano i nostri ideali, il nostro senso della bellezza. Ed è così che Iago passa in secondo piano e la riflessione si sposta prepotente su Otello. A Ventriglia interessano più i personaggi della trama. Per Ventriglia Iago ascolta Bach, Otello Beethoven.

Il Moro è a Cipro per combattere i Turchi. Il caso vuole che questi siano affogati in mare – il mare dell’isola che è sempre mosso, “che è sempre una merda” ripete il protagonista – ed allora cosa fare per non perdersi, una volta che la missione che gli è stata affidata non esiste più?
“Se avessimo un senso, un ideale, non ci sperderemmo, nonostante i turchi” scrive Ventriglia. “Il mio teatro oggi si interroga sull’Otello e lo mette in rapporto con la condizione esistenziale dell’oggi e del sempre”. Rischio altissimo, salita ardua affrontata e superata con talento e onestà.

Otello non muore, dicevamo, Otello fa un sogno, vede in lontananza passare sulla spiaggia Ludovico e Graziano ma non riesce a richiamare la loro attenzione. Passano oltre. Poi, dopo migliaia di anni, il protagonista si “vede” in lontananza coi capelli bianchi a vendere accendini, paccottiglia da vucumprà, piccole torce, animaletti che schiacciando un bottone gracchiano o mugugnano e si illuminano, dvd di “Mulholland Drive” e del vecchio spettacolo “Kitèmmùrt”, davanti a quel mare di Cipro che stanco guarda da sempre. E si sa, il mare di Cipro “è una merda”. Ma da quella spiaggia c’è la possibilità di fuggire, è atterrata una grande astronave alle sue spalle. “A bordo, a bordo, angeli!”.

Ventriglia gioca, oltre che sul testo – tagliato e ricomposto in un puzzle intenso ed efficace – anche sulla lingua; scivola nel dialetto pugliese, cita dialoghi del testo originale in inglese con accento foggiano, accelera, grida, fa le bizze, rallenta, ordina il buio e la luce sul palco a suo piacimento; è un Otello che canta “Cypress Grove Blues” di Skip James, accompagnandosi con una National Triolian d’acciaio degli anni ‘30, dialoga col pubblico, ironizza sui nomi dei personaggi, racconta barzellette politicamente scorrette, commenta in diretta l’andamento dello spettacolo, senza tuttavia perdere l’occasione per gettare di sfuggita riflessioni amare che arrivano fastidiose come gocce di pioggia nell’incavo del collo dopo che è spiovuto, eppure scottano come acqua bollente.

Alla fine chiude con una maschera che nasconde totalmente il volto di Otello, fino a poco prima così espressivo. Imbraccia la chitarra, suonando una ripetitiva e solitaria nota acuta, e si offre claudicante agli applausi sinceri del pubblico.

Nella sua rivisitazione del classico c’è un ulteriore pregio. Ventriglia riesce a mettere in risalto, domare, tenere per le briglia fondamentali punti di forza del testo quali, come scrive Giorgio Melchiori, “il vigore grandioso nella rappresentazione dei moti dell’animo” e “l’intuizione acuta e segreta delle possibilità del linguaggio”, contenute nelle pagine di quest’opera che da secoli continua ad affascinare e farci riflettere.
Alla fine ci rendiamo conto di aver compiuto un viaggio ipnotico che ci ha letteralmente strappati alla nostra realtà e ci ha tenuto lontani per un tempo indefinito (saremo saliti sull’astronave che vede Otello? O saremo noi gli angeli chiamati a bordo?).

Non ci resta che commuoverci (pensiamo al latino cum movēre). Poiché accade un piccolo e raro miracolo: siamo una volta tanto davvero a teatro, davanti ad un attore.

Otello alzati e cammina
di e con Gaetano Ventriglia
maschera Isabella Staino
produzione Compagnia Garbuggino/Ventriglia – Armunia – Rialto Santambrogio

durata: 58’
applausi del pubblico: 3’

Visto a Livorno, Teatro Florenskij, il 4 maggio 2017

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