Il teatro è ‘l’evento’. Partiamo da questo assunto: che il teatro sia fatto di ciò che va in scena, e anche di tutte le storie e le faccende che lo circondano, del pubblico, della sua risposta, del contesto. Di chi propone, di chi promuove e di chi vende.
Così, la rassegna Garofano Verde – scenari di teatro omosessuale, pensata e diretta per la ventunesima volta dal critico Rodolfo di Giammarco, è riuscita ad ‘esserci’ oltre ogni più generosa aspettativa, specialmente se teniamo conto del travagliato percorso degli ultimi mesi.
Raramente è capitato a chi scrive di assistere ad un più eclatante e trionfale successo come quello tributato a Vucciria Teatro, protagonista della prima serata, con “Io, mai niente con nessuno avevo fatto” di Joele Anastasi (anche regista e interprete con Enrico Sortino e Federica Carruba Toscano).
La storia, strutturata a monologhi, è quella di una coppia di cugini/fratelli, calati nella più infame ignoranza di un borgo della Sicilia: lei mediterranea e vitale, lui omosessuale e perciò bandito dalla società, su cui aleggia lo spettro della demenza, forse, e dell’Aids.
La sala, riempitasi lentamente e con l’agio degli ospiti più attesi, esplode, nel finale, in un applauso tra i più convinti ed entusiasti che si possano immaginare, richiamando più e più volte i tre attori in proscenio, inondando di consensi l’unica vera messinscena della rassegna – che, d’altronde, si interessa specificamente di “drammaturgia”.
La serata successiva è stata occupata da “Birre e rivelazioni” di Tony Laudadio sotto «l’egida di Teatri Uniti», con Roberto De Francesco e Andrea Renzi, una ‘mise-en-espace’ (un po’ a sorpresa, a leggere il programma di sala della rassegna) di una conversazione fra un insegnante gay e il padre di uno dei suoi studenti, del quale si scopre, passo passo, l’innamoramento proprio per quel docente d’italiano così disposto al dialogo e al rapporto personale con gli studenti.
Il testo di Laudadio, approntato appositamente per Garofano Verde, ha meritato una platea forse meno densa ma scelta, fitta di addetti ai lavori, soddisfatta, partecipe e compiaciuta negli applausi finali.
La conclusione della rassegna è arrivata con “Un bacio”, testo per tre attori che Ivan Cotroneo ha tratto e adattato dal suo libro del 2010, e adattato alle voci di Iaia Forte, Enzo Curcurù e Matteo Lai.
Il luogo dell’azione di sposta in un piccolo paese del nord Italia, e i tre protagonisti sono nuovamente due ragazzi, uno dei quali innamorato dell’altro, il quale invece, pressato dall’ambiente gretto della provincia (quasi alla stregua di quello siciliano), ne respinge l’amore in un conflitto con sé stesso che lo porterà alla violenza estrema, finale, che chiude ogni possibilità di riscatto, tramite un amore ‘diverso’ ma finalmente sentito, una fuga dall’opprimente quotidianità ottusa della vita piccolo borghese di una famiglia emigrata dal Mezzogiorno.
Considerato il ‘cursus’ affannato che la realizzazione della rassegna ha dovuto percorrere, con l’abbandono dello storico spazio del Teatro Belli e l’offerta generosa dell’Argentina come sede alternativa, in una posizione che ne fa in un certo senso l’apertura della stagione, la drastica riduzione della programmazione a tre soli eventi oltre la lettura d’anteprima di Malosti di cui avevamo già parlato, si può dire che, se “caduta” c’è stata, è finita piantandosi solidamente sui due piedi, coronando la XXI edizione del Garofano Verde di un fulgido lieto fine.
Ma se provassimo invece a guardarla non come un ‘evento’ teatrale, ma a indirizzare lo sguardo sulla materia di ciò che si vede in scena, senza per questo rinunciare a vederne un segno di ciò che si verifica fuori, nel mondo? Se volessimo concentrarci sul ‘fatto’ teatrale?
Nel lavoro di Anastasi assisteremmo alla descrizione di una Sicilia superata non tanto nell’oggetto quanto nella rappresentazione, i cui abitanti non sono che una riproduzione, peraltro poco in quadro, di macchiette; in cui l’omosessualità è ritratta pericolosamente a fianco dell’ignoranza, della stupidità, forse della malattia mentale, cioè come una deviazione dalla norma, così distante da noi da tornare a sembrarci una cosa che non abbiamo mai incontrato prima.
In disaccordo con l’interpretazione che la collega Gabriella Zeno aveva a suo tempo esposto da queste pagine, “Io, mai niente con nessuno avevo fatto” sarebbe, per chi scrive, un’opera dai mezzi scenici e drammaturgici obsoleti, dalla scrittura faticosa e imprecisa, compiaciuta del suono dialettale come se a quella brutalità si potesse sussumere ogni orrore senza sentirsi chiamati all’obbligo di analizzarlo, al punto che l’unico atto mentale rimane quello di un sentimento confuso di melenso patetismo e condiscendenza.
Concentrati sul ‘fatto’ teatrale, la recitazione risulterebbe continuamente alla ricerca del ‘cliché’ sul quale appoggiare sé stessa, in un panorama che, rispecchiando quello del testo, si ritrova infine privo di vero sguardo, e quindi di vero amore.
Sembrerebbe un’operazione, insomma, che abbassa e riporta indietro ciò che vorrebbe spingere innanzi: il tema dell’omosessualità in un contesto brutale (e chi scrive non ignora affatto come tale contesto rimanga verosimile, oggi, tanto in quella Sicilia quanto nei sobborghi romani, o nell’abbandonata provincia pervertita dalla televisione). Come se il problema fosse ancora questa ulteriore tematizzazione ‘qui’, davanti al pubblico del Teatro Argentina, e non la soluzione, che non può più continuare ad essere delegata alla via sentimentale della compartecipazione al caso singolo – è una strategia che non ha mai funzionato.
A guardare il ‘fatto’ teatrale, “Birre e rivelazioni” ci apparirebbe invece una ‘mise en éspace’ che tenta con fatica di travalicare il livello della preparazione del testo, scritto per l’occasione, e sul testo, sommari quant’altri mai; in cui gli attori, dispersi su un proscenio abbandonato alla sua penosa vastità inagita, si trascinano dietro un copione, la lettura del quale è talvolta così scomposta da sembrare una prima vista.
Ne vedremmo i mezzi scenici inappropriati, aleatori, esteticamente inaccettabili (“costumi”, “scene”, “attrezzi”); le parole vaghe, incoerenti, involontariamente grottesche e incoese, prive di ogni sorveglianza autoriale.
Troveremmo, infine, composta, piacevole, ben condotta la lettura del testo di Cotroneo, con attori per lo più in ruolo, attenti, generosi; le scelte tecniche e sceniche ‘di contorno’ apparirebbero ben pensate, congruenti con il testo e l’ambiente, anche sonoro. L’illuminazione semplice ma utile, ben coordinate le proiezioni a tutta scena di disegni di grigie architetture, talvolta provinciali accumulazioni quasi organiche di case, altra volta progetti studiati e glaciali di ortogonalità, stazioni ferroviarie, allusioni belle-époque in ferro, o futuriste, alla Sant’Elia; il testo, piccolo ma interessante, risulterebbe pensato, oculatamente distribuito, studiato, sonoro, ed Enzo Curcurù spiccherebbe su una scena in cui, con mezzi sicuri, costruisce un personaggio notevole, nuovo, di cui sa risolvere con classe il disequilibrio pressoché totale, rendendolo comprensibile ma fecondo.
Da queste riflessioni sopra un’edizione forse di svolta, ma sofferta, di Garofano Verde dovrebbe nascere ‘la scelta del critico’. Di quello, piccolo, che guarda, e di quello, più grande, che pensa, stende e scommette su un programma.