Gender Bender XVII è radical choc

Panzetti e Ticconi
Panzetti e Ticconi

Se la radicalità di Gender Bender l’abbiamo iniziata a testare con i due spettacoli presentati da Yasmeen Godder, con “Harleking”, di Ginevra Panzetti ed Enrico Ticconi, il festival riesce a toccare anche le dinamiche di potere relazionate alle questioni di genere.
Come si può (se si può) ridere della violenza? Ispirato alla commedia dell’arte, “Harleking” appare come un demone dalle identità multiple, che porta sul palco la risata ambigua che maschera il potere, lo contesta e lo incarna, il tutto attraverso il duetto satirico di Panzetti e Ticconi.
In costante tensione verso una simmetria poi sempre negata – elemento che già da sé potrebbe dire molto – i corpi dei due performer arrivano a comporre un’archeologia – anche sonora – della risata, che parte dall’immersione nell’iconografia delle grottesche, per arrivare ai movimenti bulimici del corpo arlecchinesco. E ciò che ne viene non è che uno sguardo sulla farsa e i suoi rovesci, che non rinuncia ad una provocatoria irruzione nella storia portata in scena, grazie ad una messa a nudo della sottomissione del corpo ai ritmi di una macchinosità che avremmo voluto non conoscere, e ad un’erotica gestuale di modi e tempi uniformati al totalitarismo.

Sempre di dinamiche coercitive si può continuare a parlare anche di fronte a “P!nk Elephant” di Siro Guglielmi, perché in fondo il desiderio non è che un vicolo cieco, una scatola chiusa in cui ci si ritrova come nell’intimo di una totalità non scelta.
La prima creazione di Guglielmi vuole infatti essere una riflessione sul ruolo degli immaginari e delle aspettative sociali nei confronti del corpo. Viene così da chiedersi che fine faccia il corpo in tutto ciò, e in questo riuscitissimo solo la risposta sembra essere la seguente: la fine è quella di una schizofrenia paradossalmente divertita. È questo ciò che viene da pensare di fronte ad una corporeità sempre pronta a mantenere la propria coolness, costantemente pensata e preparata per essere offerta alla lettura e all’approvazione degli altri. L’edonismo, insomma, rimane, ed ecco Siro, a ridosso del pubblico, in uno dei momenti migliori della performance, mostrare mille pose differenti variate nel microsecondo di un salto, con un distillato di complessità che ha davvero molto da dire sulle aspettative sociali che oggi, con i mezzi più disparati, imponiamo e – sia chiaro – soddisfiamo, relazionandoci ad un’esposizione continua e al tempo stesso dissociata del nostro stesso corpo.

All’insegna di una radicalità di scelta creativa per mano della direzione artistica di Daniele Del Pozzo con la co-direzione di Mauro Meneghelli, una delle serate del festival vede il riuscitissimo accoppiamento di due lavori ispirati al celeberrimo balletto moderno di Nijisky “L’apres-midi d’une faune”.
Con “Somiglianza” di Antonio De Rosa e Mattia Russo (Kor’sia) il festival tocca uno dei suoi momenti estetici più riusciti, in una rielaborazione che, specie se confrontata al resto del panorama contemporaneo, riesce a tenere vivo il rischio in una pluralità di direzioni.
Già il fatto di continuare a credere nelle possibilità della bellezza – anche tradizionalmente intesa – in una situazione come quella circostante sembra essere tutt’altro che scontato, ma a complicare la cosa è il modo in cui tale bellezza è ricontestualizzata da un lato – con non più ninfe soltanto, ma anche ninfi ad attorniare un fauno in camicia da notte – e la serie di scelte coreografiche verso la frammentazione del gesto dall’altro – con un corpo che riesce nella sua carica artistica, proprio grazie all’investimento fatto nella sua grazia più intrinseca, messa in collisione con la sua intima negazione, guadagnandone, così, un prodotto tutto contemporaneo, capace di parlare della frammentarietà del circostante senza perdere l’aura di mistero di cui il tutto sempre rimane avvolto.
In “Somiglianza” la scena sembra, insomma, affascinata da sé stessa, e tra il fumo che avvolge ogni cosa si riesce a intravedere l’ombra di un narcisismo della danza, di un auto-compiacimento per nulla scontato, fatto di auto-osservazione e auto-ricreazione, che a chi guarda arriva poi ad offrire la percezione di una insormontabile distanza estetica – perché la bellezza è sempre lontana e inarrivabile – ma, al contempo, di un ossessivo ravvicinamento – perché il corpo che danza, scomposto, collima con l’interno più vivo di ogni spettatore. È forse proprio questo cortocircuito fisico e mentale a fare la grandezza di questo pezzo.

Subito dopo si continua con “Extended simmetry” di Giuseppe Vincent Giampino, lavoro dalla fortissima tensione che, per investimento sul non detto e il non esibito, guadagna forse il posto del momento più enigmatico dell’interno festival.
Prendendo ispirazione dalla serie di lavori “nero su nero” di Malevich, sul palco tre performer eseguono la stessa sequenza di movimenti in modo non simmetrico per riflettere sul concetto di autorialità e originalità di un’opera.
E’ un’indagine acuta ed altamente perturbante sull’estensione e l’estensibilità delle cose: il palco è allargato con due porte aperte sul fondo della scena, capaci di sfondare i limiti dello spazio, aboliti poi anche dai performer e dalle loro corse confuse tra gli scalini della platea ed ogni altro spazio raggiungibile in sala.
La percezione degli spettatori è qui portata ad una frammentazione estrema, con un trompe-l’œil creato da un performer che danza sul muro di fondo, invertendo ogni tipo di riferimento visivo: una schizofrenia dello scatto che tende a (non) risolversi in una ripetizione declinata all’ossessivo, con i performer a fissare ogni spettatore dritto in faccia.

Un’altra scelta più che riuscita del festival, con l’investimento in una giovane coreografa al suo primo lavoro, sta nell’inserimento di “Keo” di Elena Sgarbossa (vincitrice di DNA appunti coreografici 2018). La performance è capace di rischiare, non temendo un abbandono totale all’essenzialità. Ispirato dall’omonimo satellite che tra 50.000 anni riporterà sulla terra dei messaggi per ora consegnati all’universo stellare (ed è interessante in questo senso il coinvolgimento nello spettacolo del pubblico, con la presenza dei messaggi degli spettatori sulla carta), il corpo di Elena si muove in uno spazio calibrato ed essenziale che riesce a conferire ai movimenti selezionati estrema poeticità e altissima capacità di auto-astrazione.
Di questo distillato gravitazionale alcune scelte coreografiche non possono che rimanere impresse nella mente – o forse nel corpo – di chi guarda: il dilatarsi di un piede che esplora il pavimento, il comparire delle braccia da un fondo non illuminato verso la luce della scena, il contrarsi e il distendersi della muscolatura. Tutto parla di una capacità di adattamento al rasoterra che arriva alle più alte vette delle lunghezze d’onda dello spazio. Un buon compendio per ripensare i termini della percezione estetica in relazione ad un ambiente circostante che continuamente va mutando, ma anche per rimettere il corpo al centro di una rivoluzione geometrica e spaziale. Dalla corporeità e i modi della sua misurazione si arriverà, quindi, a creare una vera e propria gravità alternativa.

Per radicalità nelle implicazioni intellettuali, a spiccare tra gli altri spettacoli è “Passing the Bechdel Test” di Jan Martens. Tredici adolescenti in scena danno corpo a problemi e vissuti che si relazionano principalmente a tematiche di tipo femminista, ma che lasciano anche molto spazio alla discussione della profondità possibile dei primi amori e delle prime esperienze sessuali, non senza considerare la loro determinabile raccontabilità. Un viaggio ad istantanee che pone in questione più e più irresolutezze aperte dal nostro oggi: dalla centralità di riferimento della bianchitudine, alla spettacolarizzazione costante del corpo nel nostro tempo e nell’età adolescenziale, dalle problematiche del piacere alle limitazioni al desiderio, arrivando poi alla posizione del genere femminile in tutto ciò. Un viaggio dalla tensione sopraffacente che sente di non aver abbastanza spazio per dire qualcosa che non potrà mai essere detto abbastanza.

Savusun
Savusun

Per incontrare, poi, un’ideale conclusione del festival sembra perfetto ritrovarsi di fronte all’artista iraniano Sorour Darabi nel suo “Savušun”, un pezzo di vita dalla grande radicalità d’intenti e forse la performance in cui si sente di più di assistere a qualcosa di altamente e radicalmente teso dal punto di vista artistico.

Qui, i gesti e le posizioni associati alla cultura sado-masochista e al dolore sono trasformati, attraverso la danza, in atteggiamenti di piacere, potenziali elementi di sensualità, fisicità e simbolica resistenza. Sul palco l’artista transgender FtoM rievoca riti sciiti, tradizionalmente praticati da uomini, e dialoga con il padre attraverso una lettera d’amore che, trasformando la sofferenza, la tristezza e la paura, scardina al tempo stesso la rappresentazione del concetto di mascolinità.
Di questo lavoro così radicato in modalità di storytelling (e dalle infinite implicazioni) vorremmo tenere l’invito cui allude la transizione – del corpo e dello spettacolo – del performer. Non si tratta ormai più di avere una vita e viverne due, come si poteva magari sperare, un tempo, di fronte ad un bel romanzo di formazione del tardo Ottocento o, parallelamente, di fronte all’eteronormatività più spinta del maschile-femminile tutto stereotipo. La radicale proposta di questo lavoro sta nella richiesta di allontanamento dalla binarietà della cosa, per mantenersi nella fluidità del trascorrere dell’esperienza, incessante e continua creazione di opera d’arte.

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