Simone Nebbia la racconterebbe così: “A Sergio gli piaceva di scrivere. Aveva capito che avrebbe tanto voluto fare quel mestiere, ancora di più “essere” quel mestiere. Quell’anno Sergio aveva anche capito che quello che gli piaceva di raccontare era il teatro, quello strano posto in cui le cose come tu le vedi cambiano aspetto e diventano più belle, più brutte, più giuste, più sbagliate. E poi a Sergio gli piaceva di camminare. Un giorno d’estate – che d’estate c’è quasi sempre il sole alto, il sole bello, il sole che ride – Sergio se n’era andato in un piccolo paese, dove in un piccolo teatro un piccolo uomo diceva di chiamarsi Gesuino e di voler raccontare a chi passava di lì la storia di una rivoluzione che è sempre permanente ma che non scoppia mai”.
Il Festival Estate a Radicondoli compie quest’anno 24 anni di vita. Una volta di più è dalla Toscana che arrivano queste buone iniziative. Padre della rassegna, che nel corso degli anni ha ospitato prime nazionali di tutto rispetto, è sempre stato il critico Nico Garrone, scomparso poco più di un anno fa. Quest’anno la direzione è in mano a Gabriele Rizza, critico del Manifesto di Firenze e amico di Nico, ora alle prese con una importante identità.
Anche quello di Simone Nebbia al festival è in tutto e per tutto un debutto. Lui è uno scrittore, lui fa il cronista teatrale, lui è un amico, non abbiamo paura né vergogna di dirlo. Lui è cresciuto, come tanti coetanei (non tutti, ma molti) a pane e popolo, a pane e cultura, a pane e ideologia. Ora cresce, come tanti coetanei (non tutti ma molti) navigando in una vasca di disillusione popolata di rospi da ingoiare.
“Gesuino” è il titolo di un’operazione complessa, che vuole avere poco dello spettacolo e molto dell’atto politico. In scena Nebbia occupa una sedia, accanto a lui una grancassa che servirà a marcare qualche battuta e una chitarra che userà una sola volta, quando, dice, “Marco ha bisogno di un accompagnamento”. Marco Lima sta “alle corde”, non nel senso pugilistico del termine, bensì in quello musicale: chitarrista classico di fine abilità, si occupa di musicare dal vivo questo lungo racconto. Un racconto fatto di canzoni e un fiume di parole, un racconto che viene direttamente dal cuore e parla di un’Italia senza tempo, senza punti cardinali, se non quelli della piccola vita del protagonista, Gesuino, senzatetto figlio di un ex scopino comunista, a lungo costretto a “prendere una posizione”, finendo per assumere quella “seduto”, con una gamba maciullata, sulla poltrona del salotto.
Il testo, che Nebbia non scrive ma si limita a registrare nella memoria (parola chiave di tutto), è nettamente diviso in due. Si parte con il piccolo affresco di una povertà sociale in continua lotta con la ricchezza di un’ideologia in declino: c’è il padre che spiega a Gesuino che cosa sia il comunismo paragonandolo a una frittata di cipolle per cucinare la quale ciascuno mette il proprio (chi porta le uova, chi le rompe, chi le sbatte), in cambio di una fetta uguale a tutte le altre; c’è Gesuino che si ferma davanti al negozio di televisori in cui i politici, se derubati dell’audio, sembrano poter dire tutti la stessa cosa; c’è il racconto – in musica – della prima volta che il padre di Gesuino, in cabina elettorale, si rese conto che la scheda era un po’ troppo bianca, che mancava qualcosa: il simbolo. E proprio simbolo sarà il linguaggio della seconda parte. Gesuino, dopo aver rovistato tra i rifiuti, riuscirà a prendere sonno, per rifugiarsi in una realtà alternativa, una sorta di Neverland in cui il sole “è alto e bello e ride”. La sua avventura sarà l’allegoria di un popolo che, in tutti i modi, cercha la strada per tornare a vedere quel sole. Allora gli uomini saranno come formiche, il “pensiero”, necessario per dare corpo e motivo a una rivoluzione, sarà un messaggio da consegnare al “primo della fila”, che quando la folla si dirada coincide con l’ultimo; il tramonto non sarà bello da guardare ché indicherà il declino; il potere assoluto/dissoluto, marcio nel senso più shakespeariano del termine, diventerà un palazzo delle fiabe pieno di creature che divorano e si divorano. In questo delirio della definizione troverà spazio un intero mondo, a metà tra l’immaginario di Orwell e quello di Esopo.
In questo lavoro di certo c’è la grande ricchezza di una penna fluviale, densa di riferimenti colti ma, ancor più importante, densa di curiosità, votata alla descrizione; c’è la viscerale passione di rendere intellegibili e godibili particolari che a sensibilità usuali parrebbero insignificanti. C’è anche la sensazione che, nelle parole di Nebbia, nel suo modo di scandirle, risuoni la campana ferita di quell’atto politico, quell’istanza fondamentale, quell’urgenza che ti trascina su un palco o in mezzo a una piazza per gridare, con il megafono della poesia, che ci sono cose che noi umani davvero non dovremmo immaginare. C’è, sparsa su tutto lo spettacolo, una vena di tenerezza che chiama in causa moti del cuore profondi. E passa tutta, senz’altro. C’è il tentativo di far quadrare tutti i conti, forse con qualche forzatura qua e là. C’è una presenza scenica che ha ancora davanti molto lavoro per farsi solida, ma che promette bene. Ci sono dei nomi da citare, uno su tutti Ascanio Celestini, del quale Simone si dichiara figlio, e poi – nella parte musicale – De Andrè, Gaber, qua e là addirittura Capossela. C’è di certo tutto il tempo di fare l’appello di questi nomi, ma è più importante cogliere l’originalità dell’operazione: si tratta, come detto, di un atto politico più che di uno spettacolo.
La forma, è vero, è ancora da perfezionare, il contenuto ha forse bisogno di qualche taglio, di qualche severità in più, ma è raro trovare materia così spontanea sui palchi che ospitano debutti “totali”. A quell’ometto che ogni tanto incespica nelle parole, lancia in platea sguardi autoironici commentando le proprie stesse parole e vorrebbe – si vede – a volte scomparire dalla vergogna, ho già detto che ciò che ancora manca a questo lavoro è – a mio avviso – una regia, meglio dire una mano ferma. Bisogna quindi premiare il coraggio di essere andato in scena con tutte le intenzioni e la passione chiusi nella testa, così come bisogna spingere quel coraggio a disciplinarsi sempre di più, affinché una pur encomiabile umiltà non accorci inaspettatamente il respiro di tutta l’operazione, che resta portatrice di spunti spesso interessanti, a volte decisivi. Benvengano allora le invenzioni in scena, benvengano gli oggetti feticcio, dal dispenser dei fazzoletti rossi ai cenni mimici del doppio pugno chiuso che frana in un applauso. A patto che ci si assuma o si ceda la responsabilità di regolare tutto questo.
Una nota va dedicata alla performance canora, che vede Nebbia a proprio agio anche su terreni fonetici e armonici tortuosi.
Per il resto, aspettiamo di vedere lo sviluppo di un lavoro che fa ben sperare: almeno sappiamo che a Simone Nebbia “la democrazia non ha ancora cancellato la fantasia”.
GESUINO
di e con Simone Nebbia
corde: Marco Lima
durata: 1h 18’
applausi del pubblico: 2’ 34’’
Visto a Radicondoli (SI), Teatro dei Risorti, il 30 luglio 2010