Scenografo progettista diplomato all’Accademia di Belle Arti di Brera, Giacomo Andrico da più di 20 anni lavora per il teatro, dalla prosa alla lirica, sia in Italia che all’estero.
Numerose collaborazioni con i principali centri di produzione italiani, fra cui il Piccolo, lo Stabile di Torino, il Sociale di Brescia, l’Argentina di Roma, lo Stabile di Bolzano, allestimenti storici della prosa come il “Copenaghen” di Orsini-Popolizio, il rapporto stretto sia con Branciaroli che con la regista Cristina Pezzoli, e il cimento personale come regista per alcune chicche ambientate in dimore storiche e castelli di provincia nel Nord-est italiano. A tutto questo si aggiunge anche la docenza di scenografia (in condominio con Margherita Palli) alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
Certamente una vita artistica densa, che parte da una profonda conoscenza della storia dell’arte che volge, nei suoi allestimenti, ad una finalità indagatoria e sottilmente psicologica, come nel caso del recente impianto scenico studiato per “La fine di Shavuoth”, prodotto dallo Stabile di Bolzano con la regia di Cristina Pezzoli e in scena fino al 1° febbraio al Litta di Milano, ispirato alle gigantesche installazioni ellittiche di Richard Serra.
Abbiamo incontrato l’artista in un recente impegno alla Fondazione Castello di Padernello, uno dei gioielli dimenticati della provincia lombarda, dove non di rado vengono messi in scena suoi allestimenti, fra i quali segnaliamo l’enigmatico “La suggeritrice”, drammaturgia dello stesso Andrico e di Cristina Bonfanti, interpretato da Giusi Turra e Francesco Migliaccio.
L’ultimo lavoro, inserito nella rassegna “Oltre il Palcoscenico” promossa da Regione Lombardia, Provincia di Brescia e Teatro Stabile di Brescia, andato in scena alla fine dello scorso dicembre, è “In alto mare”, opera del drammaturgo polacco contemporaneo Slawomir Mrozek, famoso per la satira e le logiche apparentemente lontane dalla vita quotidiana, ma in realtà ad essa profondamente riferibili.
L’intervista allo scenografo/regista indaga ad ampio spettro le opportunità poetiche e tecniche del palcoscenico: da come dirigere un fascio di luce a come suggerire senza svelare, nel continuo esercizio di elaborazione e silenzi di cui il teatro vive.