Immaginazione. E’ la prima dichiarazione proiettata sulle quinte ancora chiuse, prima che si accenda lui, Roberto Latini, seduto su una sedia nel boccascena, fuori dalle quinte, mentre una musica dal ritmo insistente incalza la storia e la sua voce greve diviene puro movimento.
Io ho paura.
Siamo già nella storia, ma in realtà – lo capiremo più avanti – siamo parte della storia, perché è a noi che sono rivolte le domande e siamo noi, la diretta conseguenza di quei dubbi. O forse ne siamo la premessa? Hai bisogno che ti credano gli altri, per credere a te?
“I Giganti della montagna” è l’ultima opera teatrale di Pirandello, rimasta incompiuta per la morte dell’autore. Un testo complesso, una cornice narrativa che contiene altri racconti (“Lo storno e l’angelo Centuno”), un metateatro che è un’opera nell’opera (i teatranti vogliono inscenare “Il figlio cambiato”, altra opera di Pirandello) pieno di simboli e di riferimenti. Un consistente numero di personaggi eterogenei e caratterizzati, così come è di norma, per Pirandello. Difficile pensare che Latini riesca a interpretarli tutti, o a renderli con un monologo, pensi prima di assistere alla performance. Ma è così.
Con un’abilità unica l’attore gioca con la voce e con i microfoni passando da un personaggio all’altro, che non fatichiamo a riconoscere, modificando le voci, che passano da un’impostazione metallica a una ruvida, da acuta e tremolante a balbuziente. Il Conte e la contessa Ilse, che racconta la sua vita di attrice accompagnata da un valzer da operetta viennese; gli Scalognati Crotone e il nano, e poi ancora la vecchia Gesa – una donnetta magra piccola e viva – parte della novella “Lo Storno e l’angelo Centuno”, che Latini riesce a caratterizzare con una mimica gestuale che richiama il modello tragicomico di Totò, colorando di ironia un momento cupo, che preannuncia la sua stessa morte.
L’immaginazione è la vera protagonista di questo lavoro. Latini riesce ad estendere lo spazio scenico ad una visione sempre più ampia – dei personaggi, dei fatti raccontati – che va oltre ciò che in realtà vediamo, attribuendo come in poche altre situazioni un vero significato alla parola “evocare”.
Atmosfera. E’ magia pura l’atmosfera resa da una scenografia impeccabile, dalla musica e dalle voci dello stesso Latini. Le luci di Max Mugnai tingono di giallo il campo di grano, ci inondano di azzurro della notte o del rosso della passione-follia, portandoci in una favola resa surrealista da bolle di sapone, scene in cui Latini è sui trampoli, maschere a becco d’uccello. Un sipario velato tinge tutto di opaco, mentre mostra la realtà più nuda quando viene sollevato. Tra sogno e realtà. Perché i sogni hanno vita propria, e ognuno vede la sua realtà.
Incompiutezza. L’incompiuto, il non finito è emblematico di per sé e lascia aperte – soprattutto in un’opera come questa – infinite questioni. Latini coglie più di ogni altro aspetto dell’opera proprio l’incompiutezza, e sceglie di manifestare la propria poetica nell’indefinito, nell’invisibile agli orli della vita, che scorre veloce e impalpabile davanti ai nostri occhi, tutto l’invisibile di cui la nostra vita è piena. Un sogno che è squarciato dall’ennesimo dilemma pirandelliano proiettato sul fondale, le maschere che siamo costretti ad indossare – Le maschere non si scelgono, come la verità – e delle identità che rinneghiamo. Non siamo noi, ripete più volte l’attore.
La Morte. Pirandello investe moltissimo in quest’opera, una sorta di testamento dell’anima e dell’arte, perché oltre alla sua morte che sta per giungere l’opera simboleggia anche un po’ la morte dell’arte, qui rappresentata dalla compagnia della contessa che non trova più un teatro (costretti a rintanarsi nella villa dello Scalogno) né un pubblico (nemmeno i rozzi giganti vorranno assistere alla messa in scena e invieranno i loro servi).
La morte va al di là del corpo, perché anzitutto siamo anima, e l’anima che lascia il corpo si eleva verso l’alto, verso il cielo, così come la montagna. Più volte Latini sale su una sedia, si innalza come un Cristo che risorge, e poi osa di più, sale su un alto trampolino rivolto verso il pubblico, in un momento tra il mistico e l’onirico, accompagnato dalla musica da brivido di “Una furtiva lacrima”. Il sipario si chiude, e Latini resta sospeso al di fuori delle quinte, per poi distendersi sul trampolino, come morto, lasciando intravedere solo i piedi tra le quinte chiuse.
Non hai paura?
I GIGANTI DELLA MONTAGNA
di Luigi Pirandello
adattamento e regia Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci Max Mugnai
con Roberto Latini
video Barbara Weigel
elementi di scena Silvano Santinelli, Luca Baldini
assistenti alla regia Lorenzo Berti, Alessandro Porcu
direzione tecnica Max Mugnai
movimenti di scena Marco Mencacci, Federico Lepri
organizzazione Nicole Arbelli
foto Simone Cecchetti
produzione Fortebraccio Teatro
in collaborazione con Armunia Festival Costa degli Etruschi, Festival Orizzonti . Fondazione Orizzonti d’Arte, Emilia Romagna Teatro Fondazione
durata: 100’
applausi del pubblico: 3’
Visto a Prato (PO), Teatro Metastasio, il 14 gennaio 2018