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Gigi Cristoforetti: il mondo della danza è troppo chiuso. Sogno apertura e disequilibrio

Gigi Cristoforetti

Gigi Cristoforetti

Nel comparto culturale, i teatri e i cinema potrebbero riaprire dal 15 giugno. Nel frattempo, da oggi, musei, biblioteche e archivi ripartono seguendo rigidi protocolli di sicurezza. Si lavora quindi per tornare a una nuova vita culturale, quella che cercherà di affrontare la convivenza con il Covid-19 e il distanziamento sociale….

Nei nostri colloqui sulla situazione del teatro nel tempo di difficoltà che stiamo vivendo, vogliamo ascoltare anche il comparto della danza. Iniziando con una articolata intervista a Gigi Cristoforetti, dal 2017 direttore generale e della programmazione della Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto. Cristoforetti, tra le altre curatele e collaborazioni, è stato anche direttore di Torinodanza, e ha ideato a Brescia il festival internazionale di danza contemporanea Echi del Mediterraneo, e per otto anni la Festa Internazionale del Circo Contemporaneo, prima e più importante manifestazione in Italia a presentare questo linguaggio.

In questi mesi di forzato contingentamento hai cominciato a pensare quali potrebbero essere le nuove strategie da attuare rispetto alla danza ?
Sono partito dalla volontà di riconoscere i limiti. Quelli del periodo, ma in generale quelli dell’approccio di una compagnia come Aterballetto verso la creazione e verso il pubblico.
L’isolamento è una bella metafora, siamo sempre tutti chiusi in una nicchia: quella personale, quella di una compagnia, quella della danza, quella dello spettacolo dal vivo… Scatole cinesi.
Le videocreazioni alle quali stiamo lavorando per RAI 5 (“1 meter CLOSER” di Diego Tortelli trasmessa il 29 aprile, e “The other side” di Daniele Ardillo e Simone Giorgi programmata per il 25 giugno) sono l’affermazione della possibilità di creare danza in qualsiasi condizione, purché si salvaguardi una ricerca estetica e una qualità esigenti. E pensa che per la seconda abbiamo coinvolto i musicisti de La Toscanini di Parma, e un’artista visiva della Collezione Maramotti di Reggio Emilia.
Queste operazioni sono anche un’apertura verso nuovi pubblici e nuove generazioni. Più in generale, tutto rientra nell’impostazione che ho voluto dare alla Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto, che tiene conto di un’articolazione di format (piccoli e grandi, site specific, per bambini…) e di una ibridazione con musica, teatro, fotografia, arte. Figuriamoci se non ci interessa il video, che è una specie di lente d’ingrandimento sul movimento, oltre a permettere pubblici più ampi.

Quali erano i meccanismi che trovavi più obsoleti e dannosi per il suo sostentamento e diffusione? In che modo li cambieresti?
E se ti rispondessi che l’isolamento fisico è solo l’esaltazione provvisoria di una tendenza radicata? Autoreferenziale, con l’incapacità diffusa di ragionare per sistemi comunicanti. Niente di nuovo, nell’Europa di oggi. Ma il mondo della cultura è avanti, come sempre. Anche nell’incapacità. Con tantissime, preziose, eccezioni, che non diventano per ora un trend.
Allora speriamo che questo periodo ci insegni l’importanza di dare vita a progetti di dimensioni ampie e inclusive. Di aprirci e metterci in disequilibrio, premessa del cambiamento. A noi è successo: Aterballetto ed io – personalmente – abbiamo passato un vero e proprio periodo di disequilibrio, tra passato e futuro, prima di lanciarci verso le tante direzioni che oggi perseguiamo.

Si parla tanto di streaming. Pensi che la danza proposta in questo modo ne sia danneggiata?
Facciamo una distinzione rigorosa. Le cose che nascono per il palcoscenico sono necessariamente diminuite dalla fruizione video. E non è solo una questione rituale, che pure è importantissima, legata all’entrare in un teatro. È una questione compositiva e registica. Siamo tutti legati alla fruizione live, e lo rimarremo. Ma il video ha le sue prerogative e la sua straordinaria bellezza. Il teatro non pensa in termini così rapidi come il video: solo per entrare e uscire di scena (che corrisponde all’inquadratura) serve tempo. E non si possono mescolare campi lunghi e primi piani, non si possono fare entrare in palcoscenico paesaggi.
Quindi, per la programmazione video credo ai prodotti creati con la consapevolezza dello strumento specifico. Ma c’è il tema, al quale sto cominciando a lavorare, di una ricerca che possa permettere di concepire simultaneamente una creazione “nativa”, per così dire, sia digitale che scenica. Una sfida che affronteremo già nei prossimi mesi.

Come vedi la situazione della danza in Italia? Quali sono gli artisti, le direzioni, che personalmente apprezzi di più? 
Da più parti, anche istituzionali, a partire dal Mibact, vedo la consapevolezza che nell’ambito della danza c’è energia e spazio per crescere. E che alla danza è legata la dimensione dell’internazionalizzazione, come l’apertura a pubblici giovanili.
C’è però un passaggio importante: aiutare gli artisti italiani giovani a crescere oltre un certo livello. Noi stiamo impegnando Diego Tortelli, nostro coreografo residente, su un range di creazioni a 360°. Abbiamo un punto di arrivo, nella collaborazione reciproca, che conta più del punto di partenza.
In Italia ci sono progetti per lanciare talenti e per far circuitare spettacoli, ma solo di una certa categoria: piccoli. Il passo successivo non lo si fa con facilità. Ci si deve far aiutare da coproduttori stranieri. Di conseguenza manca osmosi tra i pubblici, che si mescolano raramente. A Torinodanza abbiamo lavorato proprio per questo, e l’architettura del festival esprimeva questo bisogno di trasversalità culturale, ma è in genere un obiettivo che molti festival sviluppano magnificamente. Ed hanno successo proprio grazie a questo. Mi permetto di dire che senza questo passaggio non si andrà da nessuna parte. Altrimenti il rischio è di coltivare nicchie, in cui artista, programmatore e spettatore si guardino in faccia, e si identifichino l’un l’altro, in quella che rischia sempre di essere una piccola “cosa nostra”. Il risultato non è tutto, serve anche la strategia.

Cosa pensi di chi porta sul palco anche non professionisti? Fanno bene alla danza?
Mi vuoi far parlare di Virgilio Sieni? Lui è un maestro. Con “Orestea” ha superato i limiti della drammaturgia nella danza, con “Canti marini” quelli dello spazio scenico, e con la “Casina dei biscotti” ha reinventato in profondità, senza la superficialità di oggi, il rapporto tra danzatore e spettatore. I maestri scelgono la propria strada, in maniera a volte imperscrutabile. Seguendo bisogni personali e artistici. A parte lui, io distinguo fermamente gli interventi performativi dalla creazione, ma non ho categorie relativamente al “bello” e al “virtuoso”. Anzi, com’è noto mi interessa anche un virtuosismo “disabile”, e una bellezza che stronca i canoni, e a questi temi abbiamo già dedicato tre spettacoli. Potremmo parlare per ore di Francis Bacon. Ma questo deve avvenire nel campo della creazione e dell’arte, e l’inclusione è in un campo diverso, che può essere concomitante, oppure no.

A quale coreografo affideresti una nuova creazione che parlasse del tempo che stiamo vivendo? E quali indicazioni gli daresti?
Quale coreografo sogno? Siamo in coda per avere una creazione di Crystal Pite, niente di originale. Ci sono poi coreografi che se la cavano sempre con qualcosa di azzeccato, forse perché superficiale, e sono nel repertorio di tutti. Non ci interessano. E sono estremamente contento di stare lavorando (si fa per dire, naturalmente, in questo momento) con Johan Inger, che riesce a proiettare sentimenti che viviamo oggi su affreschi strappati alla cultura universale: come succede ora con il mito di Don Giovanni.
Insomma, bisogna intendersi su quanto grande sia “il tempo che stiamo vivendo”. Più è piccolo, meno è interessante parlarne.
Quanto alle indicazioni, in genere è l’artista che alla fine può darne a noi. Con Alain Platel, che Torinodanza ha coprodotto per oltre dieci anni, mi è successo in ogni singolo spettacolo.
Quindi, se la domanda comporta una risposta assoluta, direi Pina Bausch, almeno fino a dieci anni prima di morire, e poi Alain Platel.

Nella tua carriera ti sei sempre interessato alla gestualità: ti fa paura la parola?
No, anzi, ho cominciato lavorando in un teatro Stabile, perché mi ha appassionato la grande stagione della regia. I Castri e Ronconi (in quest’ordine), i Peter Brook e Peter Stein. Da ragazzo sono stato fortunato spettatore del Mahabharata di Brook in una cava di Avignon, e dell’Orestea di Stein a Ostia antica: due intere notti avvolto in una coperta, ascoltando parole in lingue differenti dalla mia. Esperienze assolute, che rendono relativo il confine tra lingue, gesti e discipline, rispetto alla forza del pensiero. Ma sono curioso, e spesso sono le occasioni che ti guidano, come per me la scoperta del circo contemporaneo. E poi il pendolo è tornato verso la danza.

Cosa pensi degli spettacoli di danza dedicati ai ragazzi: quali caratteristiche dovrebbero avere?
Non vale. Se mi ricordo bene, ti ho posto io questa domanda, alcuni mesi fa.

Allora, per finire con ironia, Sciarroni o Bolle?
Caspita, i “fenomeni”, nella pluralità di accezioni del termine. Ho pensieri complessi, in proposito. Tutti compatibili, sia ben chiaro, con l’ammirazione. E qui ci starebbe un emoticon: decidi tu quale. Stiamo scherzando, no?

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