
Perché il teatro di figura, soprattutto in Italia, è considerato per ragazzi?
Il teatro di figura ha avuto una sua visibilità grazie al teatro ragazzi. Il teatro ragazzi, a sua volta, è stato considerato esclusivamente per ragazzi ma non è sempre stato vero. Dal cosiddetto teatro ragazzi negli anni sono uscite molte sperimentazioni che non hanno trovato casa altrove. In Germania il teatro di figura ha una sua collocazione autonoma. E in Francia il teatro ragazzi è definito in modo più interessante: giovane teatro… Da noi, forse, è spiegabile per la catena di associazioni che può prender vita da “figura”. Figura-illustrazione- libro illustrato- libro per l’infanzia… e così si riduce l’idea di figura a espediente didattico/didascalico.
In che modo hai lavorato per uscire da questa errata considerazione?
In maniera impolitica. Faccio semplicemente cose che mi appaiono interessanti all’interno del tempo che cambia e che mi cambia: se fosse possibile tornerei indietro a cancellare tante cose mie che all’epoca mi piacevano. D’altra parte spettacoli che continuano a piacermi, all’epoca non piacevano ad altri, e c’è voluto tempo perché fossero apprezzati (come “Big Five. A savana big animals show”). L’affetto per i burattini di legno mi ha portato a far spettacoli nei luoghi meno teatrali, allo sbaraglio nelle sagre, a competere nelle piazze col rumore del traffico, ma anche nei teatri per un pubblico interessato alla poetica e non solo all’intrattenimento.
Farai ancora spettacoli per ragazzi?
Farò spettacoli di figura. Gli stessi spettacoli di burattini, come “Un trovatello a casa del diavolo” (mio cavallo di battaglia che ho presentato nelle situazioni più disparate in giro per il mondo), nascono per un pubblico popolare di tutte le età. C’è però uno spettacolo della saga del coniglietto, “Festa di compleanno”, al quale sono molto affezionato, che potrebbe esser visto come spettacolo studiato apposta ‘per ragazzi’. Il tema riguarda loro, ossia persone in rapida crescita e cambiamento.
Il teatro di figura ha delle regole diverse? Quali?
Alcune regole valgono per tutto ciò che si propone come teatro: i tempi, i ritmi, la recitazione, la coerenza dei personaggi etc. Molti pensano che il teatro di figura abbia delle regole sue, dei limiti da rispettare. Io ho provato a non rispettarli, ho fatto recitare i classici ai burattini, li ho tenuti ininterrottamente in scena a dialogare, ho messo le sbarre al boccascena e li ho tenuti in gabbia, e li ho anche costretti in scena a letto per malattia esistenziale. Mi sembra che funzioni.
Nel teatro di figura per te è più importante la recitazione, il movimento del burattino o la qualità del manufatto?
Non ritengo una cosa più importante dell’altra. Per me conta la partecipazione sincera del burattinaio alle intenzioni dei suoi personaggi. E’ la credibilità della proposta che può dare bellezza e significato a un pezzo di legno insignificante, e dignità a una recitazione poco variata. Intendo per proposta la ‘cornice’, la premessa (come il dottor S ne “La coscienza di Zeno”) che uso in molti miei spettacoli. A volte è un’ammissione di inadeguatezza che chiede indulgenza al pubblico e apre la strada all’uso dei materiali e dei manufatti più dimessi. I manierismi in baracca (del movimento, del pezzo di bravura, del cambio di voce, degli effetti speciali, del manufatto dettagliato) sono importanti ma alimentano un pubblico di collezionisti. Il ‘manufatto’ può diventare interessante nella sua indeterminatezza. L’oggetto che, nella banalità e ripetitività dell’uso quotidiano, è dormiente, prestato al teatro recupera dimensioni nascoste, diventa la risposta poetica a riflessioni cui nessuna parola può dare consolazione.

Che cosa mantieni, nel tuo teatro, della tradizione?
Mantengo la caratteristica più scomoda del teatro di burattini dell’Ottocento contadino del Nord Italia: raccontare storie, imitare la letteratura alta, tradurre i classici . Oggi può significare scrivere per baracca e burattini ispirandosi al genere della sceneggiatura del cinema. Dal punto di vista formale, invece, credo di aver sempre guardato alla Commedia dell’Arte.
Una tradizione che viene dalla tua regione?
Non mi pare esista una tradizione veneta di teatro dei burattini. Se c’era è andata perduta. Un guarattellaro, un emiliano o un bergamasco non avrebbero problemi a rispondere a questa domanda; ma per me è diverso. L’unico legame che ho avuto risale a quando, poco più che bambino, conobbi il teatro parrocchiale dei burattini di San Giobbe della vecchia Venezia, prima che la città diventasse “Veneland”. I burattini e le trame erano ottocenteschi (poi si scoprì che erano arrivati in un cassone a inizio Ottocento da Bergamo). Divenni amico fraterno di Bepi Molin che, dal padre Giusto, aveva imparato l’arte. Tutto qua. Alla fine degli anni Settanta mi tornò la voglia vedendo la messa in scena, a Venezia, di una storia ungherese con baracca e burattini fatta da una compagnia scatenata e numerosissima di giovani, tra i quali c’era anche Molnar che aveva una zia burattinaia al teatro nazionale di Budapest.
Come si discosta dalla tradizione il tuo teatro?
Forse nell’aver abbandonato l’impianto moralistico delle storie. Aver liberato uno a uno i vari personaggi della tradizione, riconoscendo ad ognuno il diritto a storie con esiti non prevedibili. Questa scelta implica la ricerca di temi nuovi, argomenti estranei alla tradizione popolare delle maschere. I temi più inaspettati: il trauma infantile di Arlecchino (“La carota”), la paura di crescere (“Festa di compleanno”) e così via. Ci sono poi elementi di divergenza più profondi. Penso alla scelta di portare la tragedia (non la parodia della tragedia) in baracca (“Macbeth all’improvviso”).
E’ soprattutto la drammaturgia a rendere così vivi i tuoi burattini e i tuoi pupazzi?
Il burattinaio deve esser travolto dall’incalzare dei dialoghi. Dentro la baracca il burattinaio vive lo sdoppiamento di sé, fa la battuta con il braccio destro e subito gli risponde il braccio sinistro disorientandolo. Uno piange, l’altro ride; uno si confida, l’altro tradisce. Ma è sempre una sola persona. Dunque, se non c’è drammaturgia credibile a farti volare da un braccio all’altro, ti smonti da solo.

Quali sono le difficoltà che trovi in Italia nel proporre i tuoi spettacoli?
I miei spettacoli sono semplicemente fuori mercato. Sono di burattini però no, sono di figura ma anche monologhi illustrati o altro. Aggiungi poi che il teatro dei burattini è ancora considerato per bambini e di intrattenimento. E’ già qualcosa rispetto alla definizione infamante che ne diede a suo tempo Silvio D’Amico. Questo può far comodo a quanti si improvvisano burattinai e trovano il mercato pronto. Per quanto mi riguarda devo ringraziare chi crede in questo lavoro ‘ibrido’ e ci sostiene. Uno fra tutti, Roberto Piaggio del Cta di Gorizia.
Come lavori con Giulio Molnar?
Gyula ed io ci conosciamo ormai da molti anni. Insieme abbiamo realizzato molti allestimenti. Negli anni Ottanta, ad esempio, ho scritto testi che lui metteva in scena per una giovane compagnia teatrale in Germania. Poi, a partire da “Operette Morali” ho chiesto a Gyula la regia per i miei spettacoli e nel tempo si è chiarita la divisione del lavoro. Non si è trattato di un intervento finale di regia su un testo mio. Gli ultimi spettacoli, dal Macbeth in poi, sono firmati da tutti e due. E’ riconoscibile un ‘marchio di fabbrica’ e anche un percorso che li lega assieme.
Chi fa che cosa?
C’è una prima fase che, di solito, parte da un semplice mio desiderio. Mi piacerebbe affrontare un testo, un tema. Succede anche che io riceva una commissione e può essere ancor più divertente. Finora ci siamo mossi in più direzioni: commedia originale, racconto originale, riduzione teatrale di testo letterario. Poi ne parlo con Gyula e si cerca un’idea di partenza, anche se vaga. Può capitare però, come in “Macbeth all’improvviso”, che l’intuizione drammaturgica sia già molto chiara. Gyula pensava ad un burattinaio che proponesse al pubblico una commedia di Goldoni perché non ce l’aveva fatta a metter in scena Shakespeare. A quel punto io ho scritto una finta commedia di Goldoni.
La prima fase quindi è la scrittura. Me ne occupo io e di solito il risultato è piuttosto letterario e comprende lunghi periodi e riflessioni che so già che spariranno nel corso dell’allestimento. Mi diverte molto, a volte c’è da scrivere anche un motivo musicale, ancora meglio. Poi tocca a Gyula proporre l’ambientazione drammaturgica e il tipo di baracca e di burattini, se si tratta di commedia. Se è un racconto seleziona le parti da tradurre in scene: come rappresentare i personaggi, quali escludere, quali rappresentare con oggetti metaforici etc. Contemporaneamente si lavora alla suddivisione del testo in scene e al riposizionamento delle sequenze. Io leggo ad alta voce il testo e lui suggerisce tagli e nuovi collegamenti.
Poi, per un periodo, io mi dedico alla realizzazione dei materiali (sculture, baracca, meccanismi…). Il risultato a sua volta farà nascere nuove idee. Ci si rivede per le prove, io sul palco e lui in regia.
Hai dei maestri? Quali artisti hai come riferimento?
Maestri no, piuttosto compagni di strada e fratelli maggiori. Sono falegname e scultore autodidatta. Ho fatto tutt’altre scuole e mi sono messo tardi a imparare, rubando con gli occhi ai molti amici artisti. Avevo trent’anni e mi sono presentato da un maestro intagliatore, a Venezia, per fare il garzone di bottega. Non mi volle dicendo che alla mia età potevo solo fare, disse letteralmente, “burattinate”. Gli artisti di riferimento si trovano soprattutto negli scaffali della libreria: Dante, Ariosto, Tasso, Foscolo, Leopardi, Tolstoj, Cechov…
Quali saranno i tuoi progetti futuri?
Sto preparando uno spettacolo sul risorgimento. Si intitolerà “Teste calde” e racconterà storie patriottiche legate soprattutto alla mia città.
Mario Bianchi, a cui si deve questo approfondimento in due puntate, è autore, regista, critico e direttore di Eolo, il sito ufficiale del teatro ragazzi italiano. Ma anche fondatore e direttore artistico del Teatro Città Murata – Centro di Produzione Diffusione e Documentazione di Teatro per le Nuove Generazioni.
Leggi la prima parte dell’intervista a Gigio Brunello