Dopo le prime giornate a WeGil, l’ex palazzetto della Gioventù italiana del Littorio, Short Theatre 2020 si trasferisce nella sua sede storica, la Pelanda a Testaccio, quella parte dell’ex mattatoio romano un tempo destinata a una pratica che il nome chiarisce senza reticenze.
Qui, chi va a vedere “Գիշեր |Gisher” l’ultimo lavoro di Giorgia Ohanesian Nardin, danzatrice, coreografa, collaboratrice fra gli altri di Igor&Moreno, Anagoor, destinataria commissioni (Balletto di Roma e CSC Centro per la Scena Contemporanea di Bassano del Grappa), deve sapere che non vedrà danza, se non per brevissimi lacerti in video.
Il lavoro è, per una volta, presto detto. Diviso in due parti, nella prima si ha la proiezione di un video, frutto della collaborazione di Ohanesian con F. De Isabella, accompagnato da voce off o proiezione di testi in inglese; nella seconda, usciti dalla sala e raccolto il pubblico attorno a un fuoco di legna e frasche scoppiettanti, si ascoltano sette voci, sette lettere indirizzate all’autrice del lavoro da Chiara Bersani, Simone Derai, Maddalena Fragnito, F. De Isabella, Raffaele Tori, Ndack Mbaye, Jamila Johnson-Small.
Se l’oggetto-spettacolo è relativamente semplice da raccontare, non è scontata la sua lettura. Esso, l’oggetto, è sì accogliente, basti pensare alla comunicativa delle immagini proiettate (scorci armeni, qualche accenno di danza, lunghi silenziosi panorami, un pendolo che oscilla) o all’ambiente tranquillizzante del falò attorno a cui ci poniamo per ascoltare, ma contemporaneamente esprime qualcosa di conturbante.
Tanto per cominciare, lo è il testo letterario che accompagna la proiezione. Esso contiene insieme momenti di innegabile lirismo, diretto a specifiche corde del cuore («ricordare è simile come sensazione al trascinare dei sacchi di sabbia», recita la traduzione, o «voglio scrollarmiti di dosso, forse è questo il mio danzare»), momenti diaristici, di confidenza («perché alla fine sento una grandissima responsabilità nell’essere vulnerabile»; «quand’è che il mio lavoro è diventato dimostrare il mio valore attraverso il discorso socratico?»), altri più apertamente politici, polemici, e improvvisi scarti simbolici («credo anche che il cuore sia molto più vicino alla schiena che al petto») ma mai capricciosi, sempre inseriti in un discorso più ampio.
Questo girovagare, che ricorda appunto la figura di quel pendolo un po’ disordinato, figura più volte presente in tutto il lavoro, si giova di attentissimi ma minuti scarti di registro che, pur mantenendosi all’interno di una gamma che non tocca mai gli estremi dell’espressionismo o dell’ermetico, riesce ad accogliere con deviazioni minime i contenuti più distanti e impone allo spettatore l’obbligo di una costante risintonizzazione del proprio ascolto, della propria esegesi.
E ciò specialmente se si considera un’ulteriore variabile, questa volta extratestuale, quella che potremmo chiamare il contesto ideologico, il milieu che uno spettatore deve attendersi nell’atto di affrontare uno spettacolo di Giorgia Ohanesian Nardin, la quale si presenta «artista, ricercator_, indipendente e agitator_ queer», il cui lavoro «ha a che vedere con narrazioni intorno a ostilità, riposo, attrito, sensualità e cura». Uno spettatore, che avrà inoltre fatto la conoscenza con il suo laboratorio “Pleasure Body”, «dedicato alla celebrazione di persone che si identificano come queer, trans, non-binarie, intersex, donne*, femme, identità non conformi, persone che esperiscono marginalizzazione (++) e i/le loro complici» assume una postura particolare di fronte alla ricezione di un materiale che si attende segnato da questo contesto. E così, volente o nolente, tale contesto entra a far parte della fruizione dell’opera, accompagna “Gisher” dentro un ulteriore discorso con la dinamica già movimentata di tutti gli elementi interni che ci siamo detti.
Da questa complessa dialettica emerge la forma finale dell’opera, ciò che, semplificando, si potrebbe chiamare il suo senso: quello dell’entrare e dell’uscire da sé, del portare sé dentro e fuori la politica, o meglio: del portare il proprio corpo politico dentro e fuori il discorso pubblico, fare di quell’essere corpo politico un veicolo per viaggiare, non senza scosse o patimenti, dall’intimità più struggente (come l’intervento di Raffaele Tori, straziante e a tratti lagrimevole, con toni che non sarebbero spiaciuti al povero Corazzini), al discorso pubblico più cristallino e oggettivo (quello di Maddalena Fragnito, un’altra delle voci della seconda parte, che stila una sorta di asciutto indice analitico delle piaghe del mondo contemporaneo).
E il miracolo è che si tratta di un oscillare, di un andirivieni che sa raggiungere l’ineffabile meta dell’equilibrio e della bellezza, una bellezza austera, senza ombra di leziosaggine o affettazione, che pare depurata da espliciti imperativi ideologici (che pure saremmo pronti a considerare e forse ad abbracciare); una bellezza persino grezza nella bipartizione “a secco” interno/esterno, video/audio, nell’accostamento selvaggio e non rifinito delle voci della seconda parte, anch’esse diverse di segno e di contenuto.
Una bellezza, per concludere, persino un po’ classica – e chissà se in questo paradosso del ritorno, come in una sintesi condotta a buon fine, si scandalizzerebbe l’autrice nel ritrovarsi.
Aveva ben pre-veduto tale esito Simone Derai nel suo pezzo che conclude il lavoro, una rievocazione dionisiaca virata al solare, oltre l’oscurità della notte (“gisher” in armeno) che ascoltiamo intorno al fuoco, un fuoco per la prima volta da mesi carezzevole, in una serata del primo acerbo autunno romano: «Piedi, piedi, piedi a perdifiato sulle pendici di Delfi, fin sulle cime, oltre le forre innevate del Parnaso. Una storia notturna che termina all’alba, iniziando».
gisher | Գիշեր
images F. De Isabella, Giorgia Ohanesian Nardin
video edit F. De Isabella
writing Giorgia Ohanesian Nardin
translation Taguhi Torosyan
durata 1h 20′
non sono previsti applausi