Nel 1997 va in scena un “Giulio Cesare. Tratto da Shakespeare e dagli storici latini” che fa discutere molto. La firma è della Socìetas Raffaello Sanzio.
Mentre il pubblico si divide – non può che essere così quando si incontra una poetica come la loro – la compagnia di Cesena si afferma a livello internazionale, segnando profondamente e indissolubilmente la scena contemporanea.
Da lì le tre anime della Socìetas (Romeo Castellucci, Chiara Guidi e Claudia Castellucci) prenderanno strade complementari che li porteranno, insieme e separatamente, a continuare ad esplorare per i successivi vent’anni le filosofie del video, della performance e del movimento.
Ma è lo stesso Romeo Castellucci che timbra come “irripetibile” l’esperienza di quel “Giulio Cesare”. Proprio lui che dichiara di voler “rappresentare l’irrappresentabile” stavolta scopre le carte.
Oggi si torna indietro? Ci sembra comunque di no.
Questo “Giulio Cesare – Pezzi staccati. Intervento drammatico su Shakespeare”, prodotto in occasione del progetto bolognese “E la volpe disse al corvo” e presentato anche al Terni Festival e a Romaeuropa lo scorso autunno, non è un revival, né un’autocelebrazione dei successi internazionali raggiunti (il Leone d’Oro alla Carriera alla Biennale di Venezia risale al 2013).
E’ un ritorno dettato anche dall’occasione dei quattrocento anni dalla morte di Shakespeare. Tre monologhi, due dei quali estrapolati dal primo atto del “Giulio Cesare”. Una serie di “pezzi staccati” emblematici, che conservano elementi di qualcosa di lontano e al contempo vicinissimo, che riusciamo ad assaporare – anche senza averne visto la nascita – per la potenza espressiva dell’impatto visivo.
Del resto è lo stesso Castellucci a sottolineare che “non ci sono letture precedenti, significati anteriori rispetto alla visione del pubblico, alla sua personalissima e mai condivisibile lettura di ciò che vede”.
La scelta dello spazio dice già molto: non è il teatro ad accogliere il “Giulio Cesare” ma il grande salone d’onore della Triennale di Milano, al primo piano. Gli spettatori vengono accompagnati tutti insieme attraverso l’imponente scalone e varcano quindi la soglia di un ambiente enorme, segnato dal bianco del marmo, e al cui interno non vi è nessun intervento scenico rilevante.
Ci si accomoda sui divanetti, anch’essi bianchi e praticamente a terra. Di fronte, piuttosto lontano, si apre il resto del salone, in cui spicca, al centro, un pulpito e un particolare marchingegno con delle lampadine.
Un suono fortissimo, una sorta di scoppio, segna l’inizio della performance, ma nulla cambia: le luci restano quelle diffuse all’entrata del pubblico. Dal fondo, attraverso una porta, entrano gli attori.
Ciò a cui assisteremo, da qui in avanti, sarà un insieme di indagini intorno alla parola, alla sua emissione fisica, al suo senso teatrale e persuasivo, e alla potenza della retorica.
Shakespeare è uno spunto, una traccia da seguire per non perdersi nella profondità di un’analisi a tratti quasi chirurgica, ma non facilitata (per lo spettatore) dalla mancanza di un materiale che connetta questi singoli “pezzi staccati”.
In scena c’è anche il Teatro, riconoscibile fra le bianche tuniche romane per un bollino sul petto che reca la scritta “…skij”.
Dal provocatorio confronto con quello che è uno dei padri fondatori del teatro del ‘900 (il riferimento è probabilmente al regista russo Stanislavskij) si propone una particolare “introspezione” che apre lo spettacolo.
A …skij (Sergio Scarlatella) è dato il compito, recitando il testo shakespeariano del tribuno e ciabattino Marullo (quasi impercettibile vista la particolarità dell’azione), di introdursi una sonda attraverso le narici fino all’epiglottide. Lo spettatore può vedere l’interno della sua cavità orale tramite una microcamera posta in testa all’endoscopio e la cui immagine, ingigantita, viene riprodotta su uno schermo al fondo.
La cruda realtà svela così la fonte vera della voce, la sua origine: nulla a che vedere con la psicologia del personaggio, ma piuttosto con l’interno del corpo dell’attore, defraudato di qualsiasi merito. Durante il breve monologo, infatti, protagonista assoluto è l’interno del corpo pulsante e vibrante, tanto reale da provocare meraviglia per quella sorta di bocca che si apre e si chiude meccanicamente al passare dell’aria e delle parole.
E’ quindi il momento della lenta entrata dal fondo di Giulio Cesare, avvolto da una tunica rosso sangue, i cui passi sono scanditi da ampie sonorità che sembrano venire dalle pareti e che fanno vibrare – così come vibrano le corde vocali – il ventre del pubblico. Un’anticipazione di ciò che accadrà: il monologo muto del vecchio Cesare, l’unico che Castellucci ha voluto inserire ex novo e che non era presente nello spettacolo originario.
Qui la parola è messa radicalmente a nudo, sostituita dal gesto enfatico, accusatorio, accompagnato da un suono profondo e penetrante. E’ un’invettiva esclusivamente mimica che l’attore rivolge contro gli spettatori, cittadini romani momentanei.
Mentre l’ars retorica viene messa al microscopio compare sul fondo, di profilo e preceduto dal rumore degli zoccoli, uno splendido cavallo da tiro nerissimo. Sul suo manto verrà apposta con vernice bianca la scritta “Mene, Tekel, Peres” (“Misurato, Pesato, Diviso”), rimando biblico al profeta Daniele.
Il Libro di Daniele racconta infatti di una misteriosa scritta comparsa dove re Baldassar stava dando una festa con più di mille invitati, circondato dagli arredi sacri trafugati nel Tempio di Gerusalemme, ostentando il suo potere. Le parole scritte dalla mano misteriosa arrivano però a travolgere quell’apparenza con una profezia: è la sentenza di un Dio sottovalutato, preso in giro e profanato dal sovrano. Il messaggio viene decodificato da Daniele: Dio ha “misurato” e “pesato” il re, risultato insufficiente e rappresentante di un regno fasullo, che infatti verrà “diviso”.
Da lì a poco Cesare viene totalmente avvolto dalla sua veste rossa in un simbolico assassinio e trascinato fuori scena passando dalla platea, urtando gli spettatori. Una detronizzazione inevitabile, che rende tangibile un passaggio drastico tra il massimo del potere espresso dalla retorica, seppur muta, e un corpo morto avvolto in un telo. Ancora una volta riaffiora l’incontro-scontro tra mente e corpo, a totale vantaggio del secondo sul primo.
L’ultimo “pezzo” è il più forte a livello empatico, tanto che qualcuno abbandona la sala nel vedere avanzare, con il dito alzato, un Marc’Antonio vittorioso ma laringectomizzato e con la ferita alla gola bene in vista. Il suo esprimersi è caratterizzato da un’afonia straniante e angosciante, che non può prescindere dall’indelebile segno che porta sul collo.
L’attore, il poeta Dalmazio Masini, è forzatamente costretto a produrre una voce “esofagea” proveniente dalla sua ferita, per Castellucci “vittoriosa per eccellenza”, attraverso cui pronuncia il notissimo discorso che lo porterà, appunto, alla vittoria.
E’ con la piccola esplosione, lenta e graduale, delle lampadine di cui si diceva all’inizio che si chiude questo “Giulio Cesare”, lasciando in chi ha partecipato – comunque sempre messo alla prova da Castellucci – , alcune delle immagini indelebili che firmano da sempre i suoi lavori.
Giulio Cesare – Pezzi staccati Intervento drammatico su Shakespeare
Ideazione e regia Romeo Castellucci
Con:
Marco Antonio: Dalmazio Masini
…vskji: Sergio Scarlatella
Giulio Cesare: Gianni Plazzi
Assistenza alla messa in scena: Silvano Voltolina
Tecnica: Andrea Melega
Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio
durata: 45′
applausi del pubblico: 2′ 59”
Visto a Milano, Triennale, il 19 marzo 2016