È difficile e ingrato far stare in una breve pagina di cronaca una serata come quella del 9 settembre scorso a Short Theatre, prima edizione a guida Piersandra Di Matteo.
Enormi e contrapposti gli stimoli che uno spettatore riceve nel corso di poche ore se decide di assistere a “The History of the Korean Western Theatre” di Jaha Koo e appena un’ora dopo a “ff_fortissimo” di Giuseppe Vincent Giampino. Proviamo ad andare per ordine.
Lo stile dell’opera del nordcoreano è coerente con quello del lavoro visto due anni fa, sempre a Short: allora il suo “Cuckoo” raccontava la crisi economica della Corea, gli aiuti economici ricevuti, il capestro a essi associato.
Il suo teatro è insieme presa di coscienza, autobiografia, tentativo di racconto esploso, costruito in un andirivieni tra politico e sentimentale.
Circa cento anni fa, secondo il discorso pubblico dal quale lo stesso Koo è stato investito, nasce ufficialmente il teatro coreano. La paradossalità di questa informazione rivela un’idea colonialista del teatro: ciò che si festeggiava con sfarzo nel 2008 era naturalmente niente di più della nascita di una tradizione occidentale del teatro (1908, costruzione di un Teatro di Stato), fatta di Shakespeare, Ibsen, Tennessee Williams e altri, posta a sostituzione delle esperienze più tradizionali e condivise.
A partire dalla capitolazione della cultura autoctona, richiesta da logiche coloniali e imperialiste, si sviluppa la riflessione di Koo, che prende quell’elemento come punto di partenza, e mira a trovarvi riflessi dell’intero processo di colonizzazione culturale. Ma come in “Cuckoo” non mancava un focus sulla sua prima persona, sugli amici suicidi per i ritmi insostenibili del neo-capitalismo coreano, anche qui l’autore e interprete indaga sul suo contesto familiare, e per questa strada il grande lago oscuro della memoria personale e del ricordo, minati dal tempo, dalla malattia.
Il lavoro però non ha un’architettura adatta a scavi o a salite, esso procede più per giustapposizione che per sviluppo: scene diverse condotte su medium diversi, tra i quali video, originali o di repertorio, canzoni, registrazioni autentiche della voce della nonna, fotografie e timidi elementi scenici. Il passaggio da una all’altra di queste scene è quasi sempre all’insegna della sorpresa e di un particolare tipo di spiazzamento, duplicato. Prima nasce la sorpresa per la creazione di un ambiente completamente inatteso rispetto a quello del momento precedente (questo punto è spesso giocato con le carte della tenerezza e della confessione intimistica, o di quel particolare kitsch che assoceremmo alle subculture giovanili nipponiche, tanto naïf da far deporre allo spettatore ogni arma di autodifesa); segue poi la comprensione della liaison des scènes tutta tematica che lega questo passaggio al resto del lavoro, che coglie chi guarda in uno stato di profonda vulnerabilità.
Anche il materiale tematico partecipe di questa struttura è molteplice: la nonna, l’Alzheimer, il ricordo, l’autobiografia del periodo giovanile, il tema documentario della storia novecentesca della cultura e della società coreane e molti altri. Essi ricorrono, si ribadiscono, sono spesso contemporaneamente presenti, e raramente, come si diceva, presentano sviluppo concettuale, anzi la loro vita sul palco ha i caratteri della staticità, spesso più nei modi della poesia lirica che in quelli di un teatro politico di denuncia.
Di contro non mancano flash accecanti, ampi al punto da ingurgitare anche lo stesso lavoro che li ha generati: uno per tutti la confessione personale, che suona come la confessione di una cultura scempiata.
In riferimento all’adozione di un canone teatrale occidentale, con grande acutezza Koo realizza la condizione prostrata del colonizzato anche nell’immaginario: «Viviamo nell’assoluto. Tutto è diventato universale». È un autore che si illumina e insieme si ripiega su sé stesso, dando forse ragione alla struttura rapsodica del dettato drammaturgico, volutamente epidermica. Un’epidermide però sensibilissima, solcata da quelle cicatrici che Koo elegge a correlativo oggettivo del senso del tempo.
Giampino, ora: può capitare che un segno volutamente “sporco” di un’opera possa essere scambiato con la scelta di una chiave non-formale, o anti-formale. Non può essere questo il caso di un lavoro come quello del notevole coreografo romano.
Le coordinate attraverso le quali “ff_fortissimo” si presenta, e quelle sulle quali delinea il suo percorso, salvo felicemente deragliarne, sono coordinate accuratamente pensate, tutte millimetricamente scritte, che hanno radici nell’estetica anni ’90 (come in una conversazione mi suggerisce l’amico Paolo Ruffini). È facile leggerlo nella descrizione che segue: lo spazio è un tappeto da danza nero, l’illuminazione consiste in quattro tubi fluorescenti algidi, calati a circa tre metri dal palco; i performer, lo stesso Giampino e Riccardo Guratti, sono interamente in nero (felpa con cappuccio, pantaloni attillati, sneaker, cappello con visiera), fanno eccezione le suole delle scarpe e una “dentiera” argento; le casse acustiche sono disposte in modo asimmetrico e all’apparenza sciatto. Tutto qui, e non deve trarre in inganno, lo “sporco” presente in un’opera invece, come si vedrà, estremamente lucida, controllata.
Ecco: su quel tappeto nero già si intravvedono delle smagliature, delle grinze e proprio lì, fin dal principio, cominceranno a prendere forma delle vesciche d’aria, dei grossi gonfiabili che renderanno impervia e disomogenea la superficie.
La corrugazione della superficie va di pari passo con l’impossibilità del gesto, persino del corpo. Essi, infatti, esistono, ma esistono a uno stato così primitivo da potersi dire larvale, appena organico. Schiena a terra, per la maggior parte dello spettacolo si spingono, faticosamente, vincendo l’attrito con la gomma del palco, in quella posizione irrealistica.
Ma prima del primo spostamento, i due prodromi d’uomo lentamente, dolorosamente sembrano avere una nascita al mondo, muovono le mani come a provare l’aria.
Il percorso è doloroso, segnato dallo scricchiolio lancinante prodotto dalla frizione di gomma contro gomma sopra il silenzio quasi assoluto, appena sbiancato da un rumore cieco (chissà se effettivamente prodotto dall’audio di sala, di Lady Maru, e non dal sommarsi del ronzio di ventole e aeratori).
Infine le due larve, in moto per un impulso che sembra browniano, si sfiorano, ed è un contatto tra due oggetti, all’apparenza (gli «oggetti nel tempo e nello spazio» di Forsythe): eppure in quel punto, quando il capo incappucciato di uno collide con il fianco dell’altro, qualcosa accade – pur sempre nel rispetto del metronomo largo, larghissimo, che campeggia sulla partitura dell’intero lavoro.
In quel contatto vi è una prima emersione, e viene da pensare all’improvviso ipotizzarsi di un qualche ordine, una nascita di senso nel dolore: i corpi si contraggono, si scambiano forse qualcosa, si conoscono per la prima volta. In loro pare quasi di immaginare l’insorgere inatteso, il baluginare di proto-sentimenti, ora la paura o forse il disgusto o il desiderio – così simili. Insomma, come se in un indifferenziato spazio caotico, pre-storico, ogni minimo mutamento degli equilibri avesse la capacità di mettere in discussione l’habitat, di capovolgere il mondo come per un big bang (la musica esplode: tonfi, detonazioni). Nel finale infatti ritroviamo i due performer addirittura in posizione eretta, conquistata con grande fatica, l’uno nel tentativo di scalare uno dei gonfiabili, l’altro fuori dal campo da gioco, dallo spazio delimitato dal tappeto, verso il fondo. Entrambi hanno il pugno destro alzato.
La lucidità, il controllo anche concettuale che Giampino ha su questo materiale, e a cui si alludeva sopra, è duplice e mostra sempre un radicamento fisico, mai astrattamente filosofico: è dal corpo, dalla sperimentazione di un suo stato di insopportabile tensione astratta che procede il pensiero, non viceversa. E il risultato è che da un lato la struttura drammaturgica, come si è visto, è estremamente coerente, e a chi sia capitato di seguire le tappe di avvicinamento a questo risultato, anche grazie al preziosissimo lavoro di curatrice di Roberta Nicolai e al suo festival dei processi, Teatri di Vetro, potrà notare una severa sfrondatura dei rami tangenti o divergenti.
Dall’alta il lavoro “interno” sulla critica, sulla decostruzione dei linguaggi della danza: se non innovativo esso è certamente radicale, dal rifiuto della postura eretta, alla messa in discussione dello spazio, sia nei suoi limiti che nella linearità geometrica delle sue fondamenta, minate dai gonfiabili, dall’uso della musica come segno di natura, come evento a sé stante, che condiziona la vita sul palco come la condizionerebbe un terremoto.
Infine un tertium che non esclude le altre letture, ma le completa. Il coraggioso, anacronistico atto autoriale, che fra l’altro obbliga, nell’immobilità dei corpi, nell’apparente autoreferenzialità, a tenere teso verso il pubblico un filo arduo, d’acciaio, funziona come metafora di un altro senso, quello che, se fossimo alle prese con un’opera medievale, chiameremmo anagogico.
In “ff_fortissimo” ciò che si rappresenta è la storia dell’universo, o meglio la sua natura. Una natura oggettuale, materialistica, non-finalistica, caotica e imprevedibile. «La vita non conclude» recita la famosa sentenza pirandelliana: così il lavoro di Giampino non inizia, perché proviene precisamente da un far luce con strumenti di laboratorio, i tubi fluorescenti, su un processo già in corso, e non si conclude, perché il buio torna a cadere nel pieno di un’azione, senza che nulla possa anticiparne l’avvento. Quella vita che non conclude è descritta qui come un mero succedersi di fatti, di sforzi sordi e patetici, di asciutti moti vettoriali.
Unica speranza, o disperazione: come per il Leopardi della Ginestra la «social catena», il «verace saper», «l’onesto e il retto conversar cittadino» erano unico tentativo (perdente) di schermo all’infuriare della Natura, così in Giampino quei pugni chiusi, benché levati da due figure senza volto, benché portati dai performer oltre i confini dello spazio percettibile e fra le tribolazioni di un percorso tutto in salita, potrebbero suonare come senso nell’insensato, luce nella tenebra senza avvenire.
The History of the Korean Western Theatre
concept, testo, regia, musica & video Jaha Koo
performance Jaha Koo, Seri & Toad
drammaturgia Dries Douibi
scenografia & disegno Eunkyung Jeong
consulente artistico Pol Heyvaert
tecnici Korneel Coessens, Jan Berckmans, Bart Huybrechts, Koen Goossens (& Jonas Castelijns)
hardware hacking Idella Craddock
ricerche Eunkyung Jeong & Jaha Kooresearch
assistenza Sang Ok Kim
interviste Jooyoung Koh, Kiran Kim & Kyungmi Lee
produzione CAMPO
co-produzioni Kunstenfestivaldesarts (Brussels), Münchner Kammerspiele, Frascati Producties (Amsterdam), Veem House for Performance (Amsterdam), SPRING performing arts festival (Utrecht), Zürcher Theaterspektakel, Black Box teater (Oslo), International Summer Festival Kampnagel (Hamburg), Tanzquartier Wien, wpZimmer (Antwerp), Théâtre de la Bastille (Paris) & Festival d’Automne à Paris residencies Kunstencentrum BUDA (Kortrijk), wpZimmer (Antwerp), Decoratelier Jozef Wouters (Brussels), Doosan Art Center (Seoul) con il supporto di Beursschouwburg, Vlaamse Gemeenschapscommissie & Amsterdams Fonds voor de Kunst
CAMPO è supportato dalla città di Ghent e dalla comunità fiamminga
durata: 60′
ff_fortissimo
concept e coreografia Giuseppe Vincent Giampino
con Riccardo Guratti, Giuseppe Vincent Giampino
dimensione sonora Lady Maru
costume design Rebecca Ihle
luce Omar Scala
outside-eye Marco Mazzoni
una produzione TIR Danza
con il sostegno di Teatri di Vetro, prender-si cura – Mattatoio di Roma, Kinkaleri Spazio K, residenze India del Teatro India – Teatro di Roma e di Anticorpi – Rete di Festival e Rassegne e Residenze dell’Emilia-Romagna nell’ambito dell’azione supportER
durata: 45′
Visti a Roma, Short Theatre, il 9 settembre 2021