Gli sposi di Lescot: altre scritture per Frosini e Timpano

Gli sposi (photo: Franco Rabino)
Gli sposi (photo: Franco Rabino)

Alla domanda di Carlo Mazza Galanti nel suo libro-intervista a Walter Siti e Michele Mari, quest’ultimo risponde che l’immagine che più si avvicina per lui a una manifestazione del paradiso in terra è la vita quotidiana nella ex DDR, con il suo grigiore e la persistenza degli oggetti nella loro forma, senza aggiornamenti innecessari o impreviste mutazioni.
Viene in mente immediatamente quel velo di arresa malinconia ricostruito in “Le vite degli altri” o “La banda Baader Meinhof”, e che immaginiamo estendersi a tutti i paesi di là dalla Cortina.

La Romania, come ce la descrivono Frosini/Timpano nella loro messinscena de “Gli sposi – Romanian tragedy” (Les époux, 2015), non rinuncia a questa patina, ma allarga l’immaginario: è un Paese un po’ DDR, sì, coi suoi copricapi di astrakan calcati sulle orecchie, con i suoi macinini spernacchianti al posto delle automobili, ma non immune da quel germe slavo di follia, solo parzialmente alcoolica, che contagiò Gogol’ e i contadini delle sue “Veglie a una fattoria presso Dikanka”, né va esente da certi eccessi bulgakoviani, quando tra le strette strade moscovite si aggirava un simile brivido, dai passi saldamente poggiati su lastricati ortogonali.

Insomma è un panorama nuovo, che deve aver affascinato il duo tanto da fargli decidere di mettere in scena un testo di David Lescot, già interprete in patria del loro “Aldo Morto” nel 2015.
Ma non bisogna lasciarsi trarre in inganno dal tema storico, e instituire un immediato collegamento tra opere come “Aldo Morto”, appunto, “Dux in scatola” e “Gli sposi”: il testo di Lescot, scritto per la regia di Anne-Laure Liégeois, ha un carattere più lineare, più austero.

I due protagonisti, il dittatore Nicolae Ceausescu e la moglie Elena Petrescu, sono agiti in prima persona dagli attori in scena (completamente vuota), e ripercorrono in ordine cronologico gli eventi che li hanno portati dall’essere due mezzi falliti, uno balbuziente l’altra poco portata per gli studi, provinciali di non brillanti natali, a scalare i pochi gradi di uno sparuto Partito Comunista romeno, poi attratto nell’orbita URSS dove, ingrassato improvvisamente, salirà al potere nel dopoguerra post-Yalta.

La sfida, per il duo di attori, si fa complessa, prima di tutto per gli enormi spazi a cui la replica estiva romana, recupero per chi in città li avesse persi a novembre, li consegna: sono quelli del palco esterno dell’Accademia di Danza, per il composito Lunga Vita Festival, alla sua terza edizione. E poi perché, come si anticipava, lo sperimentato linguaggio a cui la drammaturgia spericolata di Daniele Timpano ci aveva abituati, ha bisogno di una rimodulazione, di rientro nei ranghi. Ma l’energia e la capacità di adattamento, a Frosini/Timpano, non mancano – basti pensare che infaticabilmente portano in giro per l’Italia quasi tutto il loro repertorio, una decina di spettacoli da “Acqua di Colonia” a “Sì l’ammore no”, che sarà nuovamente in scena in autunno a Roma, quasi celebrazione sentimentale, vera, della coppia.

Dai larghi spazi Elvira Frosini e Daniele Timpano non si lasciano quindi spaventare, figuriamoci da quelli di palco: li affrontano senza riduzioni di comodo, slargano le proporzioni dei rapporti come se effettivamente quella dei due terribili romeni fosse una coppia unita per una missione in mezzo al deserto di un Paese disinteressato a contrastarne il potere fatto di delitti e mediocrità.
Né li spaventa il necessario reindirizzamento nell’alveo di un teatro di narrazione più contenuto: il distacco dall’immedesimazione rimane netto, lo stile grottesco e imperterrito, fino a esasperare il discorso di Ceausescu del 21 dicembre ‘89, che Timpano promulga e mima con quel suo stile da supermarionetta, tragico, spaventevole, ridicolo, insistendo nella ripetizione ossessiva di quell’«hallo» con cui il dittatore tentò di calmare la folla dopo i fatti di Timisoara. Una folla che per la prima volta alzava la voce, coralmente e, pur tra i vessilli-ritratti della coppia, tardi emblemi del culto della personalità, strappò di bocca al leader la sua ultima parola.
Da lì (nessun romeno dimentica il gesto meccanico con la mano destra, di uno incapace di venire a capo di quello che ai suoi occhi dové sembrare un improvviso tradimento) il corpo della terribile coppia e quello degli attori si fondono più strettamente, fino a correre insieme alla tragica conclusione, la fuga in elicottero, il passaggio in automobile, l’arresto, il processo sommario e l’esecuzione.

Questa sostanziale linearità del testo rende più difficile anche quel continuo entrare e uscire dai personaggi tipici del teatro a firma Timpano: difficile ma non impossibile, e infatti tra le more del testo scritto paiono affiorare allusioni alla vita di coppia del duo.
Si tratta però, come si diceva, di un passo “di lato”, se non altro nel lavoro su una scrittura aderente al corpo-Timpano.

Se, seguendo Antonio Audino, colleghiamo l’autore romano alla generazione del teatro di narrazione e contrapponiamo il “gesto negato” dei raccontatori al suo “gesto amplificato”, questo ci permette di spiegare la continua disarticolazione di un testo come “Aldo Morto”, il continuo sparigliare drammaturgicamente, cambiando prospettiva, mutando personaggio in scena, entrando e uscendo da questi, ricollocandosi in una posizione cronologica diversa rispetto al nucleo narrato, come il paio di un’ambiguità filosofica che ne era precisa forma concettuale. E che, ancora, si rispecchiava, con le sue continue ripartenze, in un corpo in scena unico e squassante, impossibile da regolamentare. Ecco cosa viene meno, a tratti, in “Gli sposi”.

C’è qualcosa, d’altra parte, che avvicina Lescot ai precedenti lavori del duo romano, e che dà ragione della scelta compiuta: potrebbe essere la struttura a brevi scene, il ripartire sempre da un argomento secondario per descrivere il grande tema da un altro scorcio, minore, cioè una struttura zigzagante che però è sempre strettamente coerente con la direzione del testo, sempre molto “in sicurezza”; mentre la drammaturgia di Timpano poteva permettersi deviazioni ben più ampie, più terrorizzanti, più illuminanti. E il finale, in cui ci si imbatte a sorpresa in una sorta di double-take simile alla chiusa di “Risorgimento Pop”. Prima la magniloquenza e l’illusione di un finale in fortissimo (lì era la musica di Britney Spears in versione metal, qui le immagini orripilanti della odierna tv romena, identica alla nostra) e poi una coda inattesa che termina con una cesura praticamente inavvertibile, da lasciare spiazzati, nuovamente.

GLI SPOSI romanian tragedy
testo David Lescot
traduzione Attilio Scarpellini
regia e interpretazione e riduzione Elvira Frosini e Daniele Timpano
disegno luci Omar Scala
scene e costumi Alessandro Ratti
collaborazione artistica Lorenzo Letizia
assistente alla regia / Camilla Fraticelli
voce off Valerio Malorni
progetto grafico / Valentina Pastorino
uno spettacolo di Frosini / Timpano

durata: 1h 20’
applausi del pubblico: 2’

Visto a Roma, Accademia Nazionale di Danza, il 16 luglio 2019
Lunga Vita Festival

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