Lo spettacolo di Leonardo Manzan e Rocco Placidi, premiato alla Biennale di Venezia, lascia un senso di smarrimento e apre a riflessioni su cosa voglia dire oggi, in campo artistico, trasgredire e non omologarsi
Provoca un certo effetto uscire dal Teatro Vascello di Roma e ritornare a respirare i profumi di una sera di maggio, dopo aver visto “Glory wall”, con quel grande “muro bianco del pianto” impresso nella memoria, là dove alla fine giacciono tutti i nomi, gli epitaffi di artisti e artiste, vittime della censura, muti e immobili. Una condanna sepolcrale – quasi – al “silenzio eterno degli spazi infiniti che sgomenta”, come sosteneva Blaise Pascal.
Una sensazione mista di smarrimento e di perplessità, probabilmente voluta o forse no, è quel che resta di questa opera premiata come miglior spettacolo alla Biennale di Venezia 2020. Gli autori di questa concept performance sono Rocco Placidi e Leonardo Manzan, quest’ultimo ne ha curato anche la regia ed era stato vincitore nel 2019 del bando per registi under 30 con “Cirano deve morire“.
La prima curiosità/incertezza deriva dalla natura stessa dell’opera. È una performance? Si tratta di teatro di denuncia misto a dissacrante ironia? Un crossover fra teatro-immagine, post-avanguardia e avanspettacolo? Sicuramente c’è, in proporzioni diverse, un po’ tutto di tutto questo.
Due cose sono però certe.
La prima è l’obiettivo-speranza che il pubblico esca disorientato dalla sala, come spesso ha dichiarato lo stesso regista, Leonardo Manzan. La seconda è l’idea da cui muove “Glory wall”, cioè che l’arte vive di limitazioni, spesso di repressioni, e muore di libertà.
“Uno spettacolo sul paradosso intrinseco di fare uno spettacolo sulla censura senza essere censurati e senza censurare, quando ti dicono sentiti libero di fare”: recita così, video-proiettata, l’introduzione allo spettacolo.
Se l’arte è scandalo e lo scandalo comporta la censura, allora si può concludere che c’è una relazione dinamica tra la censura e l’arte. E se alla base dell’arte vi è l’immaginazione quale forza pura e creativa, in quanto essa stessa è creativa, non imitativa o associativa, di conseguenza l’obiettivo principale a cui punta la censura non è la realtà o la descrizione del quotidiano, ma gli artisti che hanno il compito di plasmare i mutamenti con la loro immaginazione, con le loro anime.
Manzan gioca con questi paradossi e assiomi contestualizzando le questioni legate al censurare sé stessi e gli altri nel teatro. Un luogo che nonostante abbia subito, nel corso del tempo, una drastica riduzione di rilievo e di influenza sociale, mantiene ancora la sua funzione di essere come una cassa di risonanza sul tema della censura e del censurabile.
Sul muro di “Glory wall” si legge: “In principio era il Caos. Il Caos era una bocca spalancata in attesa di essere riempita”.
Così, in modo spontaneo, viene da chiedersi: il teatro è una bocca da rimpinzare e saziare o è quel buco-sfogatoio, qualcosa di osceno e clandestino che si può trovare nei bagni pubblici o nei locali per sesso? Al pubblico l’ardua sentenza.
«Finirai come Pasolini»: si narra che così finì di sentenziare al proprio figlio la signora Bartoli, madre di Pier Vittorio Tondelli, la “contadina altissima”. E in un altro senso aveva profondamente ragione.
Pasolini e Tondelli hanno molte cose in comune: entrambi hanno spogliato e mostrato, con le loro narrazioni diegetiche e mimetiche, l’essere umano in quanto corpo ostile, alieno, emarginato in una società dove predominava (e predomina ancora adesso) l’approvazione e il livellamento culturale, l’omologazione.
Pasolini e Tondelli sono stati e ancora adesso sono due fulgidi testimoni che aiutano a decodificare e mettere in discussione la storia, le contraddizioni del nostro Paese e della sua cultura.
Ecco perché risulta essere abbastanza singolare (e discutibile) che, in “Glory wall”, il poeta friulano venga fatto risorgere e, tra karaoke e la captatio benevolentiae di battute triviali, venga messo in burla insieme con altri testimoni, diversi tra loro, come De Sade, Giordano Bruno, Gesù Cristo e Al Bano per diventare “personaggetti buffi” interpretati da ignari spettatori presenti nel pubblico.
Alla luce di questa operazione, dire a qualcuno «Finirai come Pasolini», significherebbe sdoganare dai pregiudizi o esattamente l’opposto?
Non c’è cosa peggiore di un simile contrappasso, per Pasolini come per chiunque altro abbia speso la propria vita urlando con rabbia idrofoba le proprie idee, esprimendo da una posizione scomoda le critiche contro una società che è succube e si identifica in ciò che consuma, ieri come oggi.
Ogni forma o espressione artistica deve (o dovrebbe) garantire e preservare due concetti basilari: “L’arte è politica e l’estetica è etica”. Non è sufficiente, infatti, inscenare delle misere oscenità, muovere parti anatomiche come fossero burattini che simulano l’horror vacui; non basta una facezia sporcacciona e scostumata, se non si esplorano fino in fondo gli abissi della corruzione, se non si narrano la decadenza, le contraddizioni e le perversioni dell’umanità attraversandole in prima persona.
Ridurre il discorso a pratiche a sfondo sessuale, con pruriti più o meno morbosi, conditi di chiacchiericcio becero e trasgressioni didascaliche, coinvolgere per larga parte del tempo dello spettacolo un pubblico inconsapevole, senza dargli la possibilità di scelta e, soprattutto, realizzando un’azione scenica de-responsabilizzata: questo è, a parere di chi scrive, il grande limite di “Glory wall”.
Il tema della censura serpeggia da troppo tempo ormai nel mondo del teatro e dell’arte, usato spesso come un grimaldello, come un lasciapassare per proporre manfrine concettuali.
Scrivere un testo sulla censura che poi viene premiato può dare l’impressione di una contraddizione in termini, ma ancor più pernicioso è fare clamore o pubblicità con il grosso bubbone di una questione spinosa: “fare” o “essere” lo scandalo, il dissenso eretico, l’effettiva, credibile chiave di lettura eterodossa dell’attualità?
GLORY WALL
di Leonardo Manzan e Rocco Placidi
con Paola Giannini, Giulia Mancini, Alessandro Bay Rossi, Leonardo Manzan, Rocco Placidi
scenografie Giuseppe Stellato
light designer Paride Donatelli
sound designer Filippo Lilli
regia Leonardo Manzan
produzione La Fabbrica dell’Attore -Teatro Vascello, Elledieffe