Andrea Merendelli ci racconta il dietro le quinte della “cena con una storia da raccontare”
Siamo tornati ad Anghiari per la ventottesima edizione di Tovaglia a Quadri, l’ormai nota “cena in quattro portate con una storia da raccontare” con drammaturgia originale di Paolo Pennacchini e Andrea Merendelli, che ne cura anche la regia.
Nell’ormai consolidata location del Castello di Sorci, dove Benigni e Troisi scrissero “Non ci resta che piangere”, è andato in scena lo spettacolo “Gravidansia” interpretato dagli abitanti della Valtiberina e da quattro attori professionisti.
Contenuto privilegiato di quest’anno la scarsa natalità del paese, con conseguente e tragicomico invecchiamento collettivo. Gli spettatori si trovano così partecipi alla festa della locale residenza per anziani, luogo deputato all’interno (e all’esterno) della quale si intrecciano le piccole storie che concorrono ad alimentare la trama principale. Tra le molte “vite parallele” che ci scorrono davanti, quelle di una coppia senza figli che affronta la crisi coniugale di mezza età; due giovani che si innamorano; un anziano sindacalista che rivendica goffamente le lotte del passato mentre uno scaltro medico/imprenditore cerca di trarre profitto dalla crisi del sistema sanitario pubblico.
Dopo lo spettacolo approfittiamo della feconda disponibilità al dialogo di Merendelli per snocciolare alcune questioni “altre” rispetto alla formula del pasto (eccellente) abbinato ad una performance teatrale di valore, aspetti sui quali molto è stato detto. Ci interessa infatti capire quale sia la ricaduta sulla comunità locale di un evento tanto atteso, accanto ad un lavoro sulla memoria collettiva e personale sui generis che presuppone un metodo altrettanto preciso. Scopriamo così che la manifestazione, rafforzandosi negli anni, ha contribuito anche a creare forza lavoro nelle professionalità dello spettacolo, trasformando un’esperienza inizialmente amatoriale, in qualcosa di più. E’ il caso, ad esempio, del direttore tecnico del festival di Kilowatt di quest’anno, Giacomo Calli, che nasce da questo entourage per poi specializzarsi.
Ma torniamo alla memoria, alla sua “raccolta”. Anche per quest’aspetto le varie edizioni hanno contribuito ad affinare le armi. Oggi c’è un corpo di date, fatti, narrazioni decisamente denso, forse troppo. Non c’è più nulla da cercare e quasi tutto è facilmente accessibile e meno spontaneo di come poteva essere in passato. La produzione di memoria scatena un fenomeno caro a Merendelli, chiamato dal documentarista cinematografico Paolo Gandini “La memoria permessa” (titolo di un suo lavoro che vinse Venezia nel 1993). Un meccanismo ancora poco esplorato che scopre come, nel ricordare, ciascuno metta in evidenza soltanto alcuni aspetti del vissuto, “quello che vuole”. La memoria diventa così una “menzogna ben congegnata”, per citare Lalla Romano. Questa parziale consapevolezza, ci racconta il regista, ha portato ad un cambiamento proprio a partire dal metodo di raccolta, dall’intervista autobiografica.
C’è poi la consueta urgenza del racconto, quasi di denuncia seppur “mascherata” dall’ironia. La chiusura dell’ospedale di Anghiari (con conseguenti proteste), il proliferare di cliniche private e la scarsa natalità (in poco più di dieci anni la Valtiberina ha perso circa 8000 persone, un intero paese cancellato) sono diventati, quest’anno, i macro temi che, come di consueto, partono dal locale ma arrivano al nazionale.
La questione è come condensare tutto questo in un copione. Merendelli ammette che le loro sessioni di scrittura assomigliano a una battaglia piuttosto efferata, dove non manca il lancio di oggetti a sostegno di un’idea. L’importante momento drammaturgico ha luogo anch’esso al castello, proprio per immaginare i vari attori in scena a pronunciare le battute.
A Pennacchini il collega riconosce un particolare aggancio rispetto alla “pancia”, al linguaggio da bar necessario per alcuni passaggi. Ognuno ha infatti una sua metrica, che si sovrappone e si bilancia con le altre. Le parole diventano così un vestito su misura che i due sarti riescono a cucire addosso ad attori che conoscono da anni, prima come abitanti del luogo. Molti provengono dall’amatoriale ma con un retroterra, un vissuto particolare legato ad un territorio altrettanto complesso in termini di memoria e racconto. In questo senso il regista ammette che a far più fatica rischiano di essere i professionisti, forti del loro mestiere. Soltanto chi avverte i contenuti di Tovaglia a Quadri come patrimonio personale riesce a far parte a pieno del gruppo.
Questa particolare sintonia si crea durante le prove (rigorosamente a porte chiuse, al Castello di Sorci) e permette di affrontare più tematiche, anche complesse e in contemporanea, stratificandole una sull’altra e portandole avanti insieme. Cibo, tema e restituzione in tempo reale di quello che accade fanno il resto.