Il festival di arti sceniche proposto a Roma da Triangolo Scaleno Teatro incrocia esperienze e pratiche in divenire, agganciando sul palco anche gli adolescenti
Ci sono dei momenti in un festival in cui, per una sottile orchestrazione o per un imprevedibile agganciarsi delle casualità, può nascere una serata che dia conto quasi millimetricamente di un discorso più ampio, delle direttive che compongono la pratica complessiva di ricerca curatoriale. Così è stata quella di mercoledì 14 dicembre.
La messa in crisi di una postura e di uno sguardo, l’azione scarnificatrice di un progetto di pensiero critico; la creazione compiuta di un artista che si direbbe incapace di darsi per provvisorio; l’appunto laterale, forse a perdere, eppure preziosissimo: questo è Teatri di Vetro, questo l’avvicendarsi dei lavori di Greco/Dell’Abate, Fracolini/Giampino, Carlo Massari e Biancofango.
Daria Greco e Jacopo Ruben Dell’Abate hanno proposto “[parentesi]” una durational performance, distesa in un’ora, dunque godibile anche nella sua interezza.
Entrambi in tute da operaio nere, nere anche le scarpe, lei impegnata nella coreografia, lui nella fotografia, riportata immediatamente su un grande schermo.
La dimensione della durata, orizzontale, si distende nella profondità di una scena sezionata da spessori o livelli non solo fisici (davanti e dietro lo schermo di proiezione) ma rappresentativi: ora può apparirci predominante la forza della bella foto sullo schermo; ora il quadro si allarga alla foto accoppiata al gesto della danzatrice; un altro passo indietro e abbiamo foto, più gesto, più fotografo. E per finire a tutto questo può sommarsi l’apparato tecnico, pc, flash su stativo, proiettori da set e le diverse dimensioni del tratto acustico del lavoro. La musica è presente in piccole frazioni, quasi subito sottratta all’assuefazione ritmica dello spettatore. Per la maggior parte del tempo, la performance è una silent dance durante la quale Greco indossa due auricolari che danno solo a lei la dimensione di una scansione ritmica, o nemmeno quelli, così da lasciarsi andare nel nostro stesso silenzio.
Lo sguardo dello spettatore è sollecitato nel continuo ricrearsi dell’immagine sullo schermo: a volte esiti meramente raddoppiati, a volte sfondi inquietanti alla danza, altre volte documentazioni di un gesto, di un arto, di un atteggiamento – e anche la danza si spegne, Greco sta in scena senza significazioni. Altre volte, ciò che ci si propone è una rinuncia alla profondità, quando la danzatrice va dietro lo schermo e riduce la sua presenza a un’ombra, e le immagini proiettate dialogano con il suo corpo in una comune bidimensionalità. Il risultato è un repertorio di sguardi possibili, il suggerimento di una stratigrafia composita e potenzialmente inesauribile.
Il secondo lavoro chiede invece allo spettatore di fare del proprio sguardo una nave rompighiaccio. “Vacantes” è la radicale riscrittura di Greta Francolini e Giuseppe Vincent Giampino del lavoro abbozzato nel 2020, di cui non molto rimane.
Illusione dopo illusione, costruzione dopo costruzione, il duo erge posture, richiama topoi e situazioni al solo scopo di mostrarne il necessario non-essere, cioè di sabotarle.
Su musiche connotate (barocco francese, il belcanto) o gestuali (l'”addio del passato” verdiano, Vivaldi), i due performer “stanno” sulla scena in una postura di “presenza-assenza” che pare suggerire senza mimare l’impostazione protesa, icastica di un danzatore o di un attore, l’impossibilità di essa, come nel duo “The red thing”, visto lo scorso anno e ora anche questo rimesso in discussione in una nuova versione, insieme a Riccardo Guratti. E la loro stessa scena agisce così: in una rigidissima bicromia bianco-nero (rotta solo da una guida rossa gettata di sguincio, compimento ultimo dell’elaborata allegoria), il sipario è interrotto dallo sporgere di un avambraccio, ora di una gamba; il tappeto-danza, come nel precedente “FF/Fortissimo” di Giampino/Guratti, diviene una superficie eventuale, perde il suo status di cosa data, è suscettibile di essere arrotolata, di costituire inciampo; l’eroica, poetica elevazione del corpo dell’attore avviene sì, ma sui pioli di una scaletta d’alluminio.
Dietro al sipario si agglomera ora una tempesta, sbuffi di fumo lo scavalcano, filtrano dai lati, lampi di tregenda: ma il sipario viene scostato e ci è sbattuto in faccia l’ottuso roteare di due teste di proiettori. Il finale, contro tempo, perfettamente sporco.
Cosa cercano di dirci con questo inflessibile atto di smascheramento, ci si chiede – è un atto quasi ossessivo, una disillusione compulsiva, un non-stare programmatico e spinto dentro, si direbbe, fino all’elsa. È un grido, che entrambi gli artisti, fin dai loro progetti precedenti, in un modo o in un altro continuano a lanciarci. Forse è l’incommensurabile preziosità dell’errore, della vita autentica. Una realtà che si scopre non prima, alla radice, ma dopo, su, su «per li rami», sulla fronda, oltre l’investitura della forma, oltre il bordo che segna il limite estremo della finzione e della vita estetica.
Ancora, Carlo Massari declina in tre il suo progetto “Metamorphosis”.
La sezione “Blatta”, seconda del trittico, l’avevamo sfiorata in varie occasioni, inizialmente a Tuscania dove si svolge Trasmissioni, la prima sezione del festival.
Ora, in tre serate diverse, le tre parti si riuniscono. Hanno tutte, come sempre i lavori del coreografo-danzatore, una mirabile coerenza costruttiva, una capacità di essere tutte e ciascuna al suo interno, di inviare messaggi chiari, stesi con una sintassi e un’impaginazione ferree.
“Larva”, l’apertura del trittico, è composta a sua volta da tre “sermoni”: nel primo Massari entra in scena e si mette in posa, con la complicità strappata del pubblico, per foto di rito, tra il “suo popolo”, si direbbe, sotto la voce forse di Macron – camicia bianca, pantaloni scuri, taglio pulito di capelli. Quindi, al ritmo dell’arcinoto valzer dalla seconda Jazz Suite di Šostakovič, lancia sul palco paillettes e si produce in una danza che è un pavoneggiamento, un’espressione egotica smisurata, un’esibizione quasi erotica e di corteggiamento (il secondo sermone) a quello stesso popolo. Al calar della musica – del consenso? – si ritrova a secco, e il tentativo di riprendere quella danza dà il risultato di un’impacciata clownerie (il corpo non risponde, o ha una sua propria vita ostinata e renitente), il politico da solo si appiccica su sé stesso e al suolo, non decolla. Infine, a terra, quasi un burattino rotto, innalza il suo terzo sermone, che parte dall’imbonimento («Beati i poveri di spirito…») e finisce nell’assurdo e nel comico. Solo la voce di Kae Tempest riesce a zittirlo.
Nell'”involuzione” delle metamorfosi di Massari, la sua larva è un politico, inarrestabile come il monologante fascista che chiudeva la “Catarina Belaza” di Tiago Rodrigues; il suo “Sapiens” (terzo capitolo) sarà l’uomo tremante e nudo, oppresso dalla nostalgia verso l’animalità che come un piumaggio lo riscaldava, che tenta un nuovo volo, meno metaforico ma sempre impossibile. Che lancerà disperate grida di richiamo verso un compagno che non c’è, mentre il pubblico verrà fatto uscire dalle maschere. Applausi non previsti.
Ma prima di quella chiusura, così sicura, di serata, un ruscello laterale di una ricerca più ampia, quella di Biancofango, lambisce il palco A del Teatro India. All’interno, o forse a fianco dei copiosissimi materiali di ricerca prodotti dalla compagnia romana in “Never Young – Appunti”, c’è “Never Young – Game over”, un progetto nato dai laboratori con preadolescenti svolti a Ostia e a Centocelle.
Sette ragazzi dai 12 ai 14 anni siedono in platea. Lo spettatore è ammesso in sala da solo, avvicina uno di loro e gli porge la mano; lui o lei stringe quella mano e la tiene per portarlo con sé sul palco, dove avrà luogo un breve atto performativo. Ciò che vedrà e ascolterà sarà un tuffo rapido nell’età che sfugge, l’adolescenza acerba, addolorata e luminosa.
Chi scrive queste righe ha conosciuto personalmente alcuni di quei ragazzi in attesa, che sono o sono stati suoi alunni in una classe di scuola media, e non è in grado di ricostruire l’esperienza di quel contatto per uno spettatore esterno, casuale. Non quelle mani che sudano, quelle voci che tremano di fronte a sé stessi, restituiti nello specchio di una scrittura scenica – un sé tanto evidente ai miei occhi, come ai loro.