Grenland Friteater: in Puglia una finestra sul teatro norvegese

Grenland Friteater
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Una molto gradita finestra sul teatro norvegese ha animato una delle serate di novembre organizzate da Koreja a Lecce. 
La prima performance (per i più piccoli) è andata in scena al MUST — Museo Storico della Città con “Agenzia del Sig. Boccaperta. La soluzione ai tuoi problemi” di e conLars Vik. 

Fondatore del Grenland Friteater, l’attore si presenta ai bambini come ‘risolutore di problemi’ e ne richiede l’assistenza. Risponde al telefono e crea piccoli momenti di intrattenimento: un gatto che non riesce a scendere da un albero, un uomo senza amici, la pulizia del pavimento alla maniera ‘norvegese’, un amico perso da tempo nella foresta alle prese con un lupo che non vuole addormentarsi…
Il cappello alla Buster Keaton — la fisicità verticale insieme ad una espressione fissa un po’ meravigliata e un po’ stralunata — e la bocca semiaperta rendono la sua presenza imponente e a tratti rumorosa ma decisamente divertente.

La seconda parte della serata (riservata agli adulti) continua nella sala piccola della sede dei Cantieri Teatrali ed è animata da Geddy Aniksdal, che presenta “La mia vita da uomo”: un cameo che custodiremo a lungo nella memoria per la straordinaria capacità narrativa, a partire dal biografico attraverso le tappe di vita nel teatro o ‘theatrical steppingstones’. Uno stile autobiografico affine alla ‘tradizione’ odiniana — anche se l’attrice non ha mai lavorato direttamente con l’ensemble danese, ma meno ancorato alla pratica attorale e più alla ricerca del personaggio. L’attrice ha occhi che osservano il pubblico e sembrano dire divertiti: “io so che cosa state pensando”. 

Il racconto è sostenuto visivamente da tre immagini appese sul fondale: una lunghissima strada di montagna, una serie di foto di famiglia, un disegno di bambina. E’ l’immagine di un cowboy conservato nella casa della madre e recuperato dall’attrice per questo esercizio del rammemorare: “Volevo essere un cowboy”. E mentre lo afferma sorride come a dire: “Che sarei diventata una donna consapevole di sé lo sapevo fin da piccola”, lei che da grande infatti aderisce a quel network di donne del teatro e delle arti performative chiamato The Magdalena Project dove incontrerà fra le altre Julia Varley. 

L’escursione autobiografica attraverso la quale ci accompagna inizia con un laboratorio teatrale che fu non solo il principio del suo lavoro di attrice, ma anche l’inizio della sua storia d’amore con l’uomo con il quale condivide non solo la scena ma anche la vita. E continua con la scoperta di due movimenti delle mani e del corpo nati l’uno dalla timidezza e l’altro dall’errore. La storia di queste ‘storie di teatro’ che le hanno dato modo di costruirsi quello che definisce ‘uno spazio tutto per sé’. 

Parla quindi del momento in cui l’attrice aderisce all’ensemble di Porsgrunn, nel 1981, e dei primi travestimenti da uomo fra cui un ‘blues brother’. 
“Perché questi ruoli? — si domanda — Sono venuti loro da me o sono andata io da loro? Io amo i miei uomini, i miei personaggi maschili. Trovo grande libertà in loro”. Ed è un sentimento che vediamo esplodere a mano a mano che da un appendiabiti sulla sinistra della scena recupera quelli che sembrano diventarle addosso quasi degli ‘strati di pelle’, in una fisicità splendidamente controllata. 

Ecco dunque la maschera tipica norvegese con tanto di bandierine rosse e blu, al quale fa seguito un bambino di tre anni, figlio di nazionalisti norvegesi, che decide che da grande sposerà una bambina di origine non europea, fino ad arrivare a quell’operaio in tuta blu che — nella sua interazione con il pubblico quasi nella chiave di una ‘comica antropologia teatrale’ — rappresenta la destinazione finale della traversata, ma anche un ritorno al punto di partenza. 
Un lavoro, l’epica della classe operaia del suo paese, che per l’attrice ha significato in un certo senso ‘tornare a casa’. Le foto della sua famiglia sullo sfondo. Tornare insomma da suo padre, suo zio, suo fratello. Da sé stessa.

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