Gruppo Nanou apre le stanze del suo Motel. Intervista

Gruppo Nanou|Gruppo Nanou - Motel|Motel - Prima Stanza (photo: Laura Arlotti)|
||Motel - Prima Stanza (photo: Laura Arlotti)|Nanou a Venezia

Debutteranno con la prima stanza (o capitolo) del nuovo lavoro, Motel/Faccende personali, lunedì prossimo a Ferrara nell’ambito della rassegna Fuoristrada del progetto Anticorpi. Loro sono il Gruppo Nanou, nato a Ravenna nel 2003 “come spazio di confronto e valorizzazione delle competenze, degli interessi di indagine e delle attività di un gruppo di giovani artisti”. Al secolo Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci e Roberto Rettura.

La loro prima produzione, Kostia, arriva in finale al Premio Scenario di quello stesso anno. Seguono altri lavori, fra cui Sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto, penultima produzione, e Motel, tra i dieci progetti finalisti del premio di danza contemporanea Equilibrio Roma di quest’anno.

“Motel è un’unità di tempo; è un luogo familiare ma disabitato; è la stanza dei segreti, degli amanti, delle puttane, il rifugio degli assassini, la sosta dei viaggiatori. Un ambiente desolato, desertico, tutto è già finito. Sono resti. Resti di una luce, di un suono, di un corpo. Abbandono. Un giradischi ha finito il suo disco. Una radio che non trova la stazione”.

Com’è nato Motel?
Marco – Siamo partiti da una mia curiosità: capire cosa accade quando un corpo è collocato all’interno di un arredamento, con la convinzione – poi verificata – che sia in grado di creare un racconto, senza per questo fare riferimento ad una storia. Come in un quadro.

Crea un racconto perché si collega a memorie passate, quindi ad un vissuto.
Marco – Sì, ma non ai miei ricordi in quanto performer. Si collega alle memorie di lettura, molto personali, dell’immagine. Il lavoro sta nel percepire il contesto in cui ci si trova senza forzarlo, senza restituirlo volontariamente. Semplicemente darlo per assunto. Ognuno ha la propria visione, la sua personale ricerca di riconoscibilità dell’immagine, della situazione che ha di fronte. Questo è il punto di partenza.

Rhuena – Volendo collocare degli arredi nella scena, Marco ha focalizzato l’attenzione su un luogo che poteva essere di passaggio ma comunque abitato, casalingo: per questo Motel. Perché è a tratti abitato, a tratti casalingo, ma nello stesso tempo vede passare, attraversare, tante persone e realtà. Prima ancora di metterci in sala, in una primissima fase, Marco ha organizzato un piccolo storyboard che potesse darci un input. Quando siamo arrivati in sala abbiamo fatto una sorta di rewind, accorgendoci che è molto difficile riprodurre esattamente uno storyboard, eseguire un’azione che ci viene dettata da fuori. Abbiamo quindi dovuto rimontare l’azione, ritrovarla nel nostro corpo. Così abbiamo fatto un montaggio completamente slegato dallo storyboard, poi lo abbiamo affiancato e tutto tornava. Il cerchio si chiudeva.

Marco – E’ come se lo storyboard fosse stato utile per creare un immaginario collettivo fra noi tre, al quale potevamo fare riferimento. Nonostante questo immaginario fosse privo di corpo e di legami. Abbiamo intrapreso un percorso a ritroso, improvvisando, ma l’immaginario era già stato assorbito, per cui l’aderenza è arrivata di conseguenza.

A livello fisico, di movimento, di scelta coreografica… siete riusciti a staccarvi completamente dai vostri precedenti lavori? O ne siete comunque stati influenzati?

Rhuena – Visto che non riuscivamo a riprodurre esattamente lo storyboard, una volta creato il luogo con gli oggetti e gli arredi abbiamo iniziato ad improvvisare. E’ una fase molto difficile, dalla quale non siamo ancora usciti. Abbiamo lavorato un anno e mezzo al lavoro precedente, ed è naturale che il nostro corpo ne riproponga degli elementi. Quindi, a forza di lavorare in sala, abbiamo tentato di digerirli, cercando di ascoltare l’influenza del luogo, dell’arredo, per capire come il corpo potesse trovare una nuova attitudine al palco. Si tratta, ora, di riscrivere quest’attitudine: una faccenda tuttora in corso e non ancora risolta. A volte esce un tempo che ci riporta a Sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto. Per questo cerchiamo un’influenza che sia più prettamente del luogo che abbiamo adesso, e in questo gli oggetti aiutano tantissimo perché ti collocano immediatamente in relazione con qualcosa di estremamente concreto. D’altra parte, per quanto mi riguarda, mi mettono anche in difficoltà, perché il percorso che mi piacerebbe intraprendere rimane sulla concretezza dell’azione, attraverso le possibilità articolari del corpo.

Stiamo ancora cercando questa connessione tra oggetto concreto, azione che mi collega ad un oggetto e possibilità del mio corpo di essere completamente astratto ma riconoscibile come concreto.

Marco – Da quel che ho visto, mi sembra che un atleta determini con il suo corpo una concretezza ed una necessità rispetto ad un obiettivo che si pone: “Io devo fare il salto più lungo e devo trovare una tecnica, un’attitudine per farlo. Non ho una componente estetica a cui fare riferimento, ho una tecnica”. Mi sembra che il corpo, in quelle situazioni, conquisti una concretezza che nella danza ogni tanto sfugge. Ci interessa una tipologia di movimento più che un obiettivo. L’oggetto in questo aiuta. T’incastra ma ti aiuta.

Rhuena – Ti impone, come nello sport, di spendere quell’azione per qualcosa che sta fuori. Non sono impegnato sulla mia articolazione, ma sul fatto che devo andare al di là dell’asta.

Come avete lavorato sulla ricerca e l’uso dei suoni all’interno della performance?
Roberto – In questo progetto io mi sto divertendo parecchio. Ho molta competenza su tutto ciò che sono i suoni concreti e mi piace registrarli. A differenza di altri progetti, in questo caso sul suono sento di avere una responsabilità sia riguardo il tentativo di cercare di andare da un’altra parte partendo dalle situazioni concrete, sia per quanto riguarda il significato che un suono stesso decontestualizzato può avere. Molti suoni che si sentono non si vedono in scena. La possibilità che sto avendo di utilizzare questi suoni in determinati momenti del lavoro determina un’immagine sopra all’altra.

Nanou a Venezia, ospiti di una delle residenze del Teatro Fondamenta Nuove (photo: Giovanni Tomassetti per KLP)
Nanou a Venezia, ospiti di una delle residenze del Teatro Fondamenta Nuove (photo: Giovanni Tomassetti per KLP)

Per Rhuena e Marco, in scena, il suono arriva all’improvviso o è stato prestabilito?
Roberto – Nella nostra pratica di lavoro solitamente io ho sempre un po’ di autonomia. Quella che per loro è ancora sala prove, per me è lo studio dove riascolto i suoni ed inizio ad elaborarli. Preparo del materiale che poi confrontiamo in sala. In questo progetto sto spendendo tantissimo tempo in sala prove, perché mi rendo conto che riesco a percepire qual è il suono giusto solo se sto con loro, se in qualche modo improvviso mentre loro lavorano.

Marco – In Motel abbiamo scoperto, per la prima volta, che ci interessava lavorare su una relazione a tre. I progetti precedenti, invece, erano trattati come partenza di tre soli che si sovrapponevano, e da cui poi venivano scelte determinate caratteristiche e azioni in fase di montaggio. In Sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto Rhuena è stata la mia coreografa, io il suo, e Roberto è andato avanti con un discorso autonomo. Poi abbiamo sovrapposto tutto, calibrato la situazione, ma lasciando questa autonomia esecutiva, che ci serviva anche per determinare un andamento ritmico. In quest’ultima performance, al contrario, il discorso sta proprio nel lavorare insieme.

Rhuena – Una sorta di catena causa-effetto, per cui la mia azione non è strettamente legata al mio percorso, ma è influenzata molto dal suono che mi arriva, e in base al suono io risponderò con un’azione potenzialmente diversa. Stiamo cercando di nominare quali sono i punti e le modalità della relazione per poterle poi fissare. Adesso stiamo improvvisando, poi si deciderà quale suono va su quale azione, e tutto dovrà tornare.

Non parlate di emozioni. Le date per scontate?
Rhuena – Siamo molto presenti, costantemente presenti, quindi la reazione è inevitabile. Per me è fondamentale che la mia emozione sia un semplice attraversamento. Non mi interessa far arrivare allo spettatore l’emozione che io provo. Lo spettatore raccoglie l’informazione e la traduce in una sua emozione. Magari io sento di vivere una situazione assolutamente ironica mentre per lo spettatore è agghiacciante. Questo capita spesso. In Sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto, ad esempio, abbiamo tentato proprio di essere ironici, anche se in sala lo spettacolo può arrivare cupo e grottesco.

L’aspetto deformante del corpo, che avete utilizzato proprio in quel lavoro, sarà ripreso anche in Motel?
Rhuena – In quel caso il contesto ci aiutava a farlo: deformare e complicare il corpo. Io vorrei poter deformare il corpo, ma se nel progetto di Motel il corpo complicato non è giustificato né necessario dovremo evitarlo.

Marco – Per quanto mi riguarda vorrei capire esattamente che cos’è una trasfigurazione. Sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto non aveva nessun oggetto, niente, e la trasfigurazione è quindi avvenuta sul corpo e sulla percezione. In questa situazione, invece, la collocazione o la modalità di affrontare un luogo quotidiano portano già a trasfigurare.

Rhuena – “Un lieve distacco dal reale che mi rituffa con maggior violenza nel reale stesso” (Francis Bacon).

Motel è suddiviso in episodi, quello che presenterete sarà il primo capitolo.
Marco – Sì. Al premio abbiamo presentato 10 minuti di un’idea…

Rheuna – …che sarà probabilmente parte del secondo capitolo, di quella che noi chiamiamo la seconda stanza.

E quante stanze avrà il vostro Motel?
Rhuena – Da progetto tre. Come immagine, collocazione, colore, arredi e qualcosa sul corpo per il momento siamo a due stanze. La prima debutterà a Ferrara lunedì 8 dicembre, sulla seconda credo lavoreremo la primavera prossima. Per la terza non ne abbiamo ancora idea. Dopo queste due vedremo dove ci porterà il lavoro.

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