Il respiro internazionale che contraddistingue Interplay è stato amplificato in questa edizione dalla due giorni dedicata al progetto europeo DROP/Dance Roads Open Process.
Proprio di questo evento vogliamo parlare oggi, per il suo respiro transnazionale, per le peculiarità nell’essere un percorso di accompagnamento alla creazione, così come una opportunità di circuitazione, premesse indispensabili perchè un’opera possa trovare una sostanza reale e profonda.
Il progetto prevedeva, per cinque coreografi scelti uno per ogni Paese partner (Italia, Francia, Gran Bretagna, Olanda, Canada), l’offerta di periodi di residenza in ognuno dei centri di riferimento, dove, assistiti da un coach, poter lavorare alla realizzazione di una performance da presentare in un tour di più di un mese attraverso l’Europa. Nella tappa torinese, oltre alla visione delle opere, abbiamo potuto così partecipare alle due giornate di studio.
Partiamo dalla prima, una class session tenuta dalla drammaturg olandese Moos van den Broek, svoltasi presso la Scuola Holden in sinergia con il corso di Acting and Cross Media; tema dell’incontro un argomento attuale e dalle molteplici sfaccettature: “La drammaturgia nella danza contemporanea”.
Bello e significativo l’incipit in cui la studiosa e critica olandese specifica come non esistano corsi di studi per identificare un drammaturgo della danza, e come quindi la sua lezione sarà nutrita dalla propria esperienza professionale, in un campo ancora così giovane e indefinito per poterne tracciare dei contorni e delle linee veramente chiare.
Emerge dalle sue parole una figura di drammaturgo lontana dalla visione a cui il teatro di parola ci aveva abituato: il dramaturg è qui una figura che usa i segni del teatro per adeguarsi a nuovi campi, comprendendo il coreografo con cui si trova a lavorare, e assumendo di volta in volta, a seconda della necessità, la funzione di osservatore obiettivo, co-creatore attivo o semplice mediatore tra il coreografo e il pubblico, situandosi tra la performance e il mondo esterno, cercando di mettere in relazione il nuovo lavoro con il percorso artistico già intrapreso, mediando fra la teoria e la pratica, obbligando tra le infinite scelte.
Un vero e proprio lavoro di relazione quindi, che forse può spiazzare gli studenti intervenuti, come si evince dalle numerose domande che mirano a definire meglio un campo così impalpabile e sfumato.
La seconda giornata si incentra invece su un incontro con diversi operatori nazionali e internazionali, ospitato nel Laboratorio Multimediale Quazza dell’Università degli Studi di Torino.
Si discute di processi creativi, delle metodologie operative a sostegno dei giovani artisti e della formazione del pubblico, nonché della funzione, sempre più importante, dei centri di residenza coreografica come luoghi di creazione.
Sfilano sotto i nostri occhi immagini e blandiscono le nostre orecchie parole ed esempi che delineano percorsi quasi inimmaginabili per noi italiani: luoghi dove il lavoro degli artisti viene rispettato nei tempi e nei modi, viene coccolato nella sua progettualità, e promosso nella sua professionalità, esempi di reti nazionali e sovranazionali che possano garantire la mobilità degli artisti e delle idee.
Ivan Massey ci racconta ad esempio del suo centro coreografico Grand Studio di Bruxelles, che è stato concepito come un servizio pubblico, per cui gli artisti residenti non pagano nulla per l’utilizzo delle sale e anzi viene loro garantito tutto ciò che circonda la realizzazione di uno spettacolo, e quindi la promozione, l’assistenza organizzativa e così via.
A concludere degnamente la giornata è l’osservazione del professor Alessandro Pontremoli, docente di discipline dello spettacolo al Dams torinese, che evidenzia come i partecipanti al convegno, nella loro veste di operatori, “rappresentino ciò che sta tra la programmazione, con tutte le sue problematiche, e l’humus della creatività”. Soggetti, insomma, indispensabili perché avvenga il contatto fra artisti e pubblico.
Le serate di questa due giorni sono dedicate alla visione delle cinque performance selezionate per il progetto DROP/Dance Roads Open Process.
La prima annotazione è che, su cinque progetti, solamente uno è un “solo” danzato dalla sua stessa autrice, segno quindi che stiamo parlando non tanto di danz’autori, quanto di coreografi o aspiranti tali che sono già nella dimensione della trasmissione del proprio pensiero poetico.
L’impressione generale che si ricava è però quella di lavori sproporzionati rispetto alle premesse che leggiamo nelle sinossi e forse anche rispetto al contesto che li ospita, il bello spazio delle Fonderie Limone.
Ne spieghiamo subito il perché: ciò che emerge dai lavori di questi giovani artisti avrebbe forse bisogno di un luogo più informale in cui esprimersi, dove sia ancora possibile l’interazione con il pubblico e maggiore comunicazione del progetto stesso, proprio a tutela della fragilità che ancora accompagna queste opere.
Probabilmente la carenza di spazi dedicati, come ha sottolineato la stessa Natalia Casorati, direttrice del festival, rende però obbligatorie certe scelte; ma resta appunto l’impressione di una sproporzione tra contenitore e contenuto.
Tutto ciò induce a un’altra riflessione legata alle politiche culturali avviate a livello europeo: questi progetti rivolti ai giovani artisti, se da una parte favoriscono la nascita di nuovi talenti, dall’altra caricano troppe aspettative su spalle ancora deboli. Un’osservazione emersa in qualche modo anche durante la NID Platform. Lo spettacolo, inteso come macchina teatrale, sembra diventare più importante dell’idea stessa che lo dovrebbe generare, spesso non arrivando poi a suscitare emozioni o coinvolgimenti veri nel pubblico.
Torna allora alla mente una riflessione che Alessandro Pontremoli ci aveva regalato il pomeriggio sul “senso” e la “drammaturgia”, di come sia evidente uno scollamento tra i pubblici e la programmazione, e della necessità di recuperare il rapporto degli artisti con le comunità.
Non è lontano da questa impressione “D.O.G.M.A.”, coreografia di Daniele Albanese danzata da Francesca Burzacchini e Marta Ciappina, guess star della serata al di fuori del progetto DROP.
Una coreografia ipnotica, sospesa, in penombra, che volge in luce per tornare in penombra e trasformarsi sul finale in quadrati rossi che vagamente illuminano i corpi che sfiorano il loro perimetro.
Danze che restano sempre uguali a se stesse nonostante il volgere del suono e della luce, si traslano nello spazio, si sospendono, riprendono, ma non si arriva a sentirne la vera necessità, il quadro coreografico non si compone con forza, non ci trasporta in nessun luogo.
E allora le parole del professor Pontremoli stimolano la domanda: “Cosa vogliamo come pubblico?”. Una possibile risposta può emergere anche dalle riflessioni delle giovani studentesse che partecipano al progetto Youngest Critics for Dance, che sono ai primi approcci col mondo della danza contemporanea, e quindi riescono ancora a trasmetterci lo sguardo di un pubblico che non è quello degli addetti ai lavori.
Cosa vorremmo allora da uno spettacolo? Essere condotti per mano dentro un’emozione che ci porti altrove, senza per forza inseguire un perchè o una spiegazione, ma per adesione spontanea, come se anche noi stessimo godendo della perfetta gratuità del movimento.