Guerra e pace. Da Tolstoj a Gandhi, la non violenza è travolta dalla corsa agli armamenti

Il teatro di Mariupol prima della guerra (photo: mistomariupol.com.ua)
Il teatro di Mariupol prima della guerra (photo: mistomariupol.com.ua)

In un Occidente che riempie i bambini di bandiere per la pace, l’addio alle armi è sempre più utopico

“Quanto maggiore appare la necessità, tanto minore appare la libertà. E viceversa”.
(Guerra e pace, Lev Tolstoj)

Centinaia di persone rifugiate nel Donetsk Academic Regional Drama Theater, il principale teatro di Mariupol, la città che quasi nessuno di noi conosceva fino a poche settimane fa. Era un teatro, il nuovo obiettivo militare colpito ieri sera (e poco importa, adesso, da quale parte sia arrivato l’attacco), un luogo simbolico che siamo abituati a pensare di incontro e condivisione fra persone, lingue, idee e visioni. Un luogo che, secondo fotografie aeree fornite da osservatori sui diritti umani internazionali, era stato contrassegnato a entrambe le estremità con la scritta “Bambini”.
E anche di simboli si nutre la guerra. Che colpisce teatri, ospedali, persone in coda per il pane, case e università. Forse li chiameranno poi, nei tribunali, crimini di guerra. Conteranno le vittime. Si scriveranno pagine di storia.

In questi giorni insegniamo ai nostri bambini – un’infanzia più fortunata di quella che aveva cercato un luogo “sicuro” in un teatro – che la pace è il valore più importante; raccontiamo loro il significato di parole come accoglienza e solidarietà (anche se avremmo dovuto farlo già prima). Ripetiamo che non si deve rispondere alle bombe e alle minacce con nuove e più potenti armi. Che il mondo dovrebbe accettare sfide più alte. Ma poi vien da chiedersi quanto siamo noi stessi i primi a non crederci.
Avremmo forse bisogno di guardare al passato per ipotizzare alle nuove generazioni scenari futuri diversi.

Guardando indietro, dovremmo allora far imbattere i nostri figli, quasi per caso, in due personaggi vissuti a cavallo tra Ottocento e prima metà del Novecento. E raccontare loro che uno era uno scrittore russo, si chiamava Lev Tolstoj. L’altro era, rispetto allo scrittore, più giovane, e viveva a migliaia di chilometri di distanza. Si chiamava Mahatma Gandhi, e non si sarebbero mai incontrati di persona.

Cosa condivisero questi due personaggi? Molto più di quanto potremmo immaginare. Perché per l’allora giovane Gandhi, che sarebbe diventato il leader del movimento indiano di resistenza non violenta, le parole dello scrittore russo furono decisive per la sua formazione.

Tutto iniziò nel dicembre 1908, quando un rivoluzionario indiano anti-britannico, Tarak Nath Das, scrisse a Tolstoj per chiedere il suo appoggio verso il processo d’indipendenza dell’India dal dominio coloniale della Gran Bretagna.
Tolstoj rispose con una missiva (“Lettera a un indù”) in cui sosteneva che l’unico modo di liberarsi dagli inglesi era seguendo il principio dell’amore: “Non resistete al male; evitate di parteciparvi”.
Un principio che oggi, sotto le bombe e gli spari che scuotono l’Ucraina, sembra tanto anacronistico quanto utopico.
Eppure, fra i moniti dello scrittore russo, ve ne erano molti altri di tale portata, come “Nessuno dovrebbe combattere” o ancora “È peccato esercitare il potere politico, poiché questo causa tanti dei mali del mondo” (da “La forza della verità”).

La lettera che Tolstoj scrisse, e questa è storia, giunse anche a conoscenza di Gandhi, che a quel tempo era un giovane attivista. Provò a farla pubblicare in Inghilterra, ma senza successo. Venne poi pubblicata a puntate sull’Indian Opinion.
Fu quella la scintilla che permise ai due di iniziare una corrispondenza che durò circa un anno, fino alla morte dello scrittore russo.

In questi scambi, mentre Tolstoj si avvicinava alla morte, emerse il suo pensiero, che gli faceva ribadire come “Ogni impiego della forza è incompatibile con l’amore”. Sarebbe infatti l’amore la legge più naturale dell’uomo, abbandonata tuttavia per seguire quella della violenza, che imperversa da secoli ma che, secondo Tolstoj, si basa su falsi miti a cui l’umanità si è adattata.

Il pensiero di Tolstoj colpì così a fondo Gandhi che decise di chiamare in suo onore la propria fattoria in Sudafrica, luogo in cui si sarebbero evoluti i principi del Movimento Swadeshi, che avrebbe fatto parte del movimento d’indipendenza indiano.

Ma come possiamo parlare, oggi, alle nuove generazioni di non violenza e pace quando sappiamo che gli Stati Uniti hanno l’esercito più potente del pianeta, o la Cina il maggior numero di militari in servizio attivo (due milioni di persone) mentre la Russia ha il primato delle scorte nucleari più consistenti, tra cui la bomba atomica più potente, la Tsar, pesante 27.000 kg. e con una potenza 3.125 volte superiore alla bomba che distrusse Hiroshima nel ’45 (che, di chili, ne pesava “solo” 4.000)?
E abbiamo preso in riferimento solo le super potenze. Ma arsenali atomici sono disseminati anche in Francia, Israele, Regno Unito, Pakistan, India e Corea del Nord. E perfino l’Italia, pur non possedendone di proprie, “ospita” quelle di altre superpotenze, come gli Usa. Si chiama Nato.

La Terra su cui tutti conviviamo in disarmonia, dove le guerre imperversano anche senza avere l’eco e l’impatto emotivo di quella in Ucraina (a noi così prossima), potrebbe essere distrutta da un numero di armi nucleari ben inferiore rispetto a quelle esistenti, fatto che dimostra, una volta di più, una logica del potere e del possesso del tutto distorta.
Eppure proprio ieri la Camera dei Deputati ha approvato (a larghissima maggioranza) un Ordine del Giorno per avviare l’incremento delle spese per la Difesa. Proposto dalla Lega Nord e sottoscritto trasversalmente da deputati di Pd, Fi, Iv, M5S e FdI, lo hanno chiamato “Decreto Ucraina”, e ipotizza “un sentiero di aumento stabile nel tempo che garantisca al Paese una capacità di deterrenza e protezione” – si legge nel testo – che mirerebbe a portare le spese della Difesa verso il 2% del PIL, un’indicazione informale di spesa per i Paesi dell’alleanza Nato che era già stata data nel 2006, seppur non in modo vincolante.
Impossibile allora parlare di disarmo quando le prospettive potrebbero essere quelle di passare dai circa 25 miliardi l’anno attuali ad almeno 38 miliardi (una spesa di 104 milioni al giorno!).

Cifre cui si uniscono la precarietà di accordi internazionali e manovre geopolitiche non trasparenti.
Basti ricordare, tornando all’Ucraina e facendo di nuovo un passo indietro, come, allo scioglimento dell’Unione Sovietica, proprio l’Ucraina avesse “ereditato” ben 1.900 testate nucleari dall’ex URSS. Un “tesoretto” a cui rinunciò nel 1994 con il Memorandum di Budapest, un accordo in cui Stati Uniti, Russia e Gran Bretagna si impegnarono a non attaccarla proprio in cambio della rinuncia alle testate atomiche, che vennero distrutte dalla Russia nei due anni successivi. Il trattato di non proliferazione delle armi nucleari (e il conseguente trasferimento dell’arsenale nucleare ucraino in Russia) implicava il rispetto dell’indipendenza e della sovranità ucraina entro i confini dell’epoca, e l’astensione da ogni minaccia o uso della forza contro l’Ucraina.

Ma sappiamo che altra acqua, nel frattempo, è passata sotto i ponti. E ora le bombe cadono (anche) su ospedali e teatri diventati rifugio per migliaia di civili. La domanda quindi resta: come parlare di pace e disarmo ai più giovani? Come evitare di farli diventare concetti vuoti o solo “buonisti”? Ha ancora senso appellarsi a figure come quelle di Tolstoj e Gandhi? Hanno ancora qualcosa da insegnarci?
E, ancora, come far sì che la Cultura (della pace ma non solo) imponga un proprio peso su economia, politica e ideologie?
Non possiamo non porci questi problemi, anche se il nostro giornale tratta prettamente di altro. Non possiamo continuare a scrivere dell’ultimo spettacolo visto nella nostra isola – ancora felice – senza proporre allo stesso tempo riflessioni d’altro tipo, a costo di sembrare retorici e ripetitivi.

Chiediamo quindi scusa per essere usciti così brutalmente fuori dai nostri contenuti usuali, proponendo spunti di riflessione che si allontanano dal teatro in senso stretto, nominato solo come protagonista di cronaca di guerra.
Cercheremo, come abbiamo fatto finora, di tenere aperto su Klp anche un canale di riflessione su quanto sta accadendo (chi volesse seguire le diverse proposte pubblicate finora potrà cliccare sul Tag “Ucraina” al fondo), alternandolo con i nostri consueti articoli dalle scene.

Perché “Tutto quello che ho per difendermi è l’alfabeto; è quanto mi hanno dato al posto di un fucile
(Philip Roth)

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