Hamletmachine di Bob Wilson, la macchina della disillusione

Photo: Lucie Jansch
Photo: Lucie Jansch

A trent’anni dalla prima tedesca, e a quaranta dalla prima stesura del testo di Heiner Müller, torna a Roma “Hamletmachine” di Robert Wilson, affidato in scena ai performer dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico.

Una versione fedele all’originale (New York, 1986) e commissionata a Wilson dal Festival di Spoleto 2017, quella andata in scena nella sala studio dell’Auditorium Parco della Musica come evento speciale del XVI Premio Europa per il Teatro, il riconoscimento nato a Taormina nel 1987 e che, nel corso degli anni, ha premiato alcuni tra i più celebri autori teatrali, tra cui gli stessi Muller nel 1994 e Wilson nel 1997.

Concepito negli anni della ultima grande contestazione allo status quo globale, “Hamletmachine” è, a dire dello stesso Muller, “un opuscolo contro l’illusione che si possa rimanere innocenti in questo nostro mondo”.
Rabbioso e nichilista, sanguinoso e beffardo, l’Amleto riscritto dall’autore tedesco è renitente al suo ruolo, come già quello di Laforgue e di Carmelo Bene: “Io non sono Amleto. Non recito più alcun ruolo. Le mie parole non dicono più niente”. E anche gli altri personaggi non “stanno più al gioco” del teatro.

Tanto vorticoso e rabbioso è il testo, quanto posato e misurato è il dire e soprattutto il muoversi dei corpi, fatti di andature segnate e ripetute. Equilibrio contrappuntistico tra la rovinosa voglia di frantumare e frantumarsi e una messa in scena raffinata, da tableaux vivants, quasi che quei corpi e quelle voci non avessero una testa pensante ma fossero piuttosto un dispositivo scenico, un veicolo in grado di consegnare al pubblico quei proclami. La libertà dell’essere una macchina (attoriale?), la perfezione dell’automatismo (“Voglio essere una macchina. Braccia per afferrare gambe per camminare nessun dolore nessun pensiero”).

Quello composto da Bob Wilson è un mondo grigio, distopico, raggelato, in cui si notano i segni del tempo in cui è stato pensato, le tracce del postmoderno nei costumi e nei riferimenti culturali. Un dramma congelato, imbevuto di attesa dolente e desolata, conseguenza di una nuova lucidità senza speranza.
Tra suggestioni funeree e incitazioni alla rivoluzione, si avverte un’atmosfera di generale resa, lontani dall’entusiasmo dell’esibirsi, di portare il dramma fino in fondo. Il brio che veleggia in superficie (i sorrisi esibiti degli attori, la musica anni ’40), come quello di Blade Runner o di Brazil, è mascheramento del marcio che sta sotto.

Elogiato dalla stesso Muller “per l’incredibile e innovativo impianto illuminotecnico e visivo e per la quasi totale assenza di interpretazione scenica”, lo spettacolo di Wilson esalta la dimensione temporale in un continuo cambio del punto di vista: una macchina corale che si svela in un doppio campo/controcampo, attraverso progressive rotazioni sceniche e cambi di postazione di tutti gli elementi-ingranaggi utilizzati.
L’anarchia del dire e la ripetizione/regolarità dell’agire si incontrano in una composizione visiva e in una complessa partitura sonora in cui c’è sempre “spazio per vedere e tempo per sentire”.

Le dilatazioni vocali e le lente transizioni di colore e luce, in tonalità fredde di grigio, blu ceruleo, bianco – le celebri atmosfere sognanti e “irreali” dell’arte di Wilson – fanno del tempo una forza plastica, un tempo interno, lì dove, come suggerisce Arthur Holmberg nel suo libro sull’autore americano, si annida “l’infinito della meditazione”.

Hamletmachine
testi di Heiner Müller
ideazione, regia, scene e luci Robert Wilson
co-regia Ann-Christin Rommen
con Giovanni Firpo
adattamento luci John Torres
collaboratore alle scene Marie de Testa
costumi Micol Notarianni
dai disegni originali di William Ivey Long
make-up & hair Manu Halligan
con i performers dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico
Liliana Bottone | Grazia Capraro | Irene Ciani | Gabriele Cicirello | Renato Civello | Francesco Cotroneo Angelo Galdi | Alice Generali | Adalgisa Manfrida | Paolo Marconi | Eugenio Mastrandrea | Michele Ragno Camilla Tagliaferri | Luca Vassos | Barbara Venturato
Produzione Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’amico
in collaborazione con Fondazione Musica per Roma

durata: 1h 40′
applausi del pubblico: 2’

Visto a Roma, Auditorium Parco della Musica – Teatro Studio Borgna, il 15 dicembre

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