“Un artista non dovrebbe mentire a se stesso o agli altri.
Un artista non dovrebbe rubare idee agli altri artisti.
Un artista non dovrebbe scendere a compromessi con se stesso o con il mercato dell’arte.
Un artista non dovrebbe fare di sé un idolo…”.
(da “Manifesto della vita di un artista”, Marina Abramović)
C’è una lunga fila di persone ad attendere Marina Abramović fuori dal Teatro Sociale di Alba. Non tutti riusciranno ad entrare per ascoltare dalla viva voce di una delle performer più “estreme” della nostra epoca il racconto della propria esperienza artistica e di vita, fuse in un’unione indissolubile.
L’occasione dell’incontro arriva dall’invito dell’azienda Ceretto – 160 ettari di vigneti nelle Langhe -. Oltre a proseguire la tradizione familiare vinicola, la nuova generazione dei Ceretto è impegnata nella promozione dell’arte contemporanea. Ecco allora Marina Abramović giungere in quel piccolo angolo del Piemonte (terra che ricorderà anche al suo ritorno a New York, dove le verrà recapitato uno splendido esemplare di tartufo bianco) con “Holding the Milk – The Kitchen, Homage to Saint Teresa”, installazione video omaggio a Santa Teresa di Avila, una “santa da performance” di cui si narra la levitazione sopra una pentola di zuppa, così come di aver lasciato che il cuore le fosse trafitto da una lancia. E già solo da questi due aneddoti ci sarebbe di che tracciare varie liaison con la conceptual artist più celebrata al mondo, come l’ha definita il Sunday Times.
Abramović, protagonista di performance in cui ha utilizzato il proprio corpo oltre i limiti del dolore, del pericolo e dello sfinimento (“da giovane ero un po’ matta”, ironizzerà durante l’incontro col pubblico), superata la soglia dei 70 anni lo scorso anno, decide di virare in questo progetto su qualcosa che potremmo definire decisamente meno rischioso, ossia impersonare l’asceta spagnola nella cucina di un convento abbandonato, con una grande finestra alle spalle ad illuminarla, tenendo in mano per quasi 13 minuti una ciotola metallica piena fino all’orlo di latte, mantenendo nell’immobilità un equilibrio e una concentrazione che verranno solo minimamente scalfiti, con un goccio di latte a caderle sul vestito nero e a terra, da una leggera scossa di terremoto.
La cucina – qui rinata nell’ex convento La Laboral di Gijòn – per Marina è luogo altamente simbolico. Costretta alla violenza quotidiana imposta da due genitori che litigavano ferocemente e si odiavano, quando il padre lasciò la famiglia, l’arrivo della nonna in casa rappresentò un appiglio cui aggrapparsi per non soccombere a una madre (“Ho sempre avuto paura di lei”) ossessionata da una disciplina militare: “La cucina divenne il centro del mio mondo – racconta nell’autobiografia “Attraversare i muri” – Tutto accadeva lì. C’erano una stufa a legna e un grande tavolo dove sedevo con mia nonna e le raccontavo i miei sogni”.
La videoinstallazione, visitabile fino al 12 novembre nel suggestivo Coro della Chiesa della Maddalena, nel centro storico di Alba, è occasione per avvicinarsi alla figura di un’artista dalla forte componente empatica ed emotiva, capace di ridere di sé, di mostrare le debolezze della propria vita privata o di chiudere una lectio magistralis raccontando una barzelletta sugli artisti.
“Il pubblico sente quando non sei presente; solo attraverso la mia presenza può entrare nel qui e ora – ha spiegato al pubblico – Se in teatro il sangue non è vero sangue, nella performance il sangue è sangue. La realtà della performance è essenziale, così come l’energia del pubblico”.
Ciò che più ha mosso Marina Abramović in tutti questi anni di performance ed esperienze in giro per il mondo – dagli States al Brasile, dall’Europa all’India o l’Australia – è una curiosità instillata e nutrita fin dall’infanzia. Se da un lato, racconta lei stessa, crebbe succube di una madre anaffettiva che non le diede mai un bacio (per evitare che crescesse viziata) e con cui per tutta la vita rimase in aperto conflitto, dall’altra proprio la figura materna la incoraggiò ad avvicinarsi alla pittura, al teatro, alla letteratura… “Fin da quando avevo sei o sette anni sapevo di voler diventare un’artista – ripercorre nella sua autobiografia – Mia madre mi puniva per tante cose, ma mi incoraggiò in quell’unica direzione. Perché l’arte per lei era sacra”.
Nel ripercorrere le principali tappe della sua vita artistica – in una fusione di pubblico e privato, condizionata dal ferreo rigore educativo ricevuto dalla madre nella natia Jugoslavia post-Tito – Marina Abramović spiega ad Alba il perché delle sue scelte spesso ai limiti: “Il dolore è la cosa che temiamo di più, ma quando riusciamo ad eliminarlo, lo superiamo e finalmente ci apriamo”. Ed è così che, con quei gesti ritenuti estremi, attraverso quelle pratiche che sfidavano il corpo, “Avevo fatto esperienza di una libertà assoluta; avevo sentito che il mio corpo era senza limiti e confini; che il dolore non aveva importanza. Ed era inebriante”. Fin dalle prime performance Marina percepisce il dolore come “una porta sacra da cui si accede a un altro stato di consapevolezza”.
“Davanti a me c’è una caverna e io devo esplorarla. Cosa succede se si fanno cose sconosciute? Pensate a Cristoforo Colombo – invita il pubblico in sala – Venne mandato dalla regina di Spagna a scoprire una nuova rotta per l’India, con un equipaggio costituito solo di galeotti, temendo di cadere se si fossero spinti troppo nell’Atlantico, visto che si credeva la Terra piatta… Una sfida verso l’ignoto, e guardate cosa scoprì…”.
Un coraggio e una voglia di sperimentare che Marina, fin dagli esordi, mise alla prova su di sé. Nell’autobiografia, parlando di “Rhytm 10” (performance ideata nel ’73 e ispirata a un gioco balcanico, in cui mette la mano con le dita allargate sul tavolo e con l’altra colpisce velocemente gli spazi tra le dita con dei coltelli affilati), ricorda come, fin da quel periodo, “L’arte era vita e morte. Era una cosa molto seria, e molto necessaria”.
“Prima di iniziare ero terrorizzata, ma la mia paura si dissolse appena cominciai. Ero in uno spazio sicuro […] A quella velocità ogni tanto sbagliavo mira, non di tanto, e mi facevo un taglietto […] Il mio sangue macchiava la carta bianca con un effetto molto impressionante. Il pubblico stava a guardare in un silenzio di tomba. Provavo una sensazione molto strana: era come se un flusso elettrico scorresse nel mio corpo, e il pubblico e io fossimo diventati una cosa sola. Un unico organismo. Il senso di pericolo che si avvertiva in quel momento aveva fuso me e gli spettatori”.
Un concetto che, a distanza di decenni, ribadisce anche oggi: “Usando l’energia del pubblico si è protetti […] Il pubblico è il mio specchio e io sono lo specchio del pubblico”.
Ma nel suo percorso c’è un altro concetto fondamentale, che è quello di morte: “Viviamo sempre nel passato o progettiamo il futuro, mentre è il presente che dobbiamo vivere come un miracolo. Se aggiungiamo il concetto di morte vivremo meglio […] Tutti sono soggetti a traumi, a sentirsi soli, a temere la morte e il dolore. Il mio ruolo è cambiare la consapevolezza delle persone verso il bene”.
“Spesso metto la morte nei miei lavori, e leggo molti libri sull’argomento – spiega anche nell’autobiografia – Penso che sia essenziale includere la morte nella propria vita, pensarci ogni giorno. Non c’è idea più sbagliata di quella di essere permanenti. Dobbiamo capire che la morte può bussare in qualunque momento, e quindi bisogna essere pronti”. Sarà per questo che ha già dettato a un avvocato le volontà sulla forma che dovrà avere il suo funerale…
“Tutti noi dobbiamo arrenderci ai cambiamenti, e la morte è il più grande cambiamento di tutti”.
Vi lasciamo alle immagini girate ad Alba.
Attraversare i muri. Un’autobiografia
Marina Abramovic, James Kaplan
Traduttore: A. Pezzotta
Editore: Bompiani
Collana: Overlook
Anno edizione: 2016
Pagine: 411 p., ill., Brossura
Costo: su IBS € 16,15 anziché € 19 (risparmi € 2,85)