Al Festival dei Due Mondi di Spoleto il debutto del nuovo spettacolo di RezzaMastrella
Se qualcuno non sopporta il fragore delle porte sbattute dal vento o da mani indelicate, come quello che risuonava nelle case della nostra infanzia e sollevava i soliti rimproveri, meglio che si tenga alla larga dall’ultimo lavoro di Antonio Rezza e Flavia Mastrella.
Diciamolo subito, “HỲBRIS”, fresco di debutto al Festival dei Due Mondi di Spoleto 2022, non è una rivoluzione nella teatrografia del duo, forse si tratta di un cauto passo in più. Un sottile ma strenuo filo tematico tiene insieme l’intero lavoro, ma come altri, e forse più di altri, lo spettacolo si caratterizza per la frammentarietà.
D’altra parte, le ascendenze di un duo per cui spesso i critici, specialmente dopo la consacrazione del Leone d’oro nel 2018, si tengono prudentemente sulle generali, lasciandosi entusiasmare e contagiare dal linguaggio iperbolico, dall’erotismo del pastiche presenti nel loro stesso oggetto di studio, cedendo a un’aggettivazione a base di “onirico”, “folle”, “lunare”, “geniale”, le ascendenze sono riconoscibili in quelle nobili del varietà e in quelle forme teatrali che sanno restituire un senso non attraverso il formato organico, ma quasi per accidenti e peripezie, al modo della “sgangherata cronaca medievale” (Matteo Marchesini).
In “HỲBRIS” si tenta l’esperimento di aumentare la popolazione di palco (si arriva fino a otto performer, erano quattro nel precedente “Anelante“), mentre la scena, se si escludono alcuni oggetti di passaggio, risulta quasi sgombra. C’è una porta con il suo telaio, trasportata, aperta e richiusa centinaia di volte durante lo spettacolo, ora a fare da cesura tra un ambiente, casa o stanza, e l’anticamera del mondo altro, ora a dividere questo mondo in un Dentro e in un Fuori, spunto per elucubrazioni inestricabili e scaltre sull’essere, sull’esserci, su un “sarei”, condizionale, si potrebbe dire, di un’eventualità. Una possibilità nel tempo, in cui il non-essere-presente teorico si scontra con la presenza pratica di un corpo; o nello spazio, tradotta nella figura della Veranda, «un tentativo disperato del dentro di rientrare fuori», oggetto architettonico per la prima volta investito da un inquieto alito di sospetto.
Scena e corpi sono dunque connessi: l’esperimento della moltiplicazione dei corpi in scena di cui si diceva non è infatti esperimento drammaturgico, piuttosto scenografico: “HỲBRIS” rimane completamente centrato nella figura scenica di Rezza, i corpi degli altri, non sono che sparring partner, contro cui la (s)carica verbale, il cimento psico-fisico del performer si rovescia. Ora sostengono parti, ruoli sottili, come di carta velina (Maria Grazia Sughi è la madre, Chiara Perrini la fidanzata, Ivan Bellavista, storica presenza dei palchi rezziani, un esemplare d’uomo in nero, occhiali scuri, incapace di adattarsi alle richieste del burattinaio, quindi da prendere sottogamba e annichilire); ora sono, al limite, proiezioni sceniche della scrittura, segnaposto drammaturgici. Sono essi, quei corpi, a costruire l'”habitat” scenico, a sostituire quinte e attrezzi, sono essi le resistenze contro cui si impunta, fa presa e stravince il corpo vocale di Rezza, vestito di un costume a tagli colorati che ricorda le impalcature di tessuto che Mastrella aveva creato per “Pitecus” e “Io”.
Ma non solo.
Spettacolo dell’immobilità e della continua mutazione è “HỲBRIS”: il polo Rezza, l’unica forma di vita intelligente presente in scena, è quello da cui sempre, come sempre, parte la voce, lo stimolo, l’energia. Eppure le configurazioni del palco, la topografia della scena, benché quasi del tutto vuota, risultano a una conta veloce moltissime e tutte costruite con l’immaginazione, un’immaginazione che proprio da quella voce e da quel corpo in scena dà a esse forma oggettiva in scena. L’esempio più efficace è quello dei “vetri”, nella scena in cui Antonio finge una lunga teoria di vetrate dietro alle quali si muove, e contro le quali la sua voce sbatte. Quelle vetrate, ben più efficacemente di una complicata costruzione che si accampasse (magicamente? digitalmente?), precedono i suoi passi: esistono realmente, sono da lui evocata e messe in scena, noi la vediamo perché udiamo la sua voce che le intercetta.
Ma la voce, poi, sottintende una lingua: più stagnante, autoassolutoria, ma non per questo incapace di colpire almeno con il pugno di uno sbuffo di risa, nei giochi di parole (scrutinio/scrotinio; divertitevi/diverticoli; psicologo/psicotropo); più brillante nell’epigramma cinico («La vita è l’eutanasia dei poveri») sempre sussunta in una figura, sempre quella di Rezza, talmente cattiva da fare a meno della violenza; lingua capace di dimenticare sé stessa sia nei borborigmi iniziali, quando la porta sembra lo sportello di una bara entro cui il performer giace, sia nel punto in cui si lascia fondere nel puro significante di un fischietto in bocca, che invece di censurare lancia più alte al cielo le strida di una viscerale bestemmia, le braccia tese, le mani aperte come quando si invoca, in un capovolgimento non estraneo all’esperienza quotidiana, qui fatto emergere dalla purezza di quell’unico suono.
Parallelamente, come un binario che corra insieme a questo, lo stesso unico e innegabile elemento scenico, la porta, perde la sua fisicità, e sul finale si trasfigura interamente nel suo versante sonoro: non è più una porta che sbatte (udita ormai, a quest’altezza, fino alla sazietà), sono fucilate che abbattono uno per uno tutti i performer in scena.
Chiave di volta di questo lavorio sul suono che si fa materia (la scena) e sulla materia che si distilla in suono (il fischio, le fucilate) la scena più esilarante dell’intero lavoro, quella del metal detector, che non è da rivelare, ma da vedere in scena.
E poi? Cosa può esserci oltre la sovrapposizione di habitat e habitans in forma di figura vocale, scenografica, emittente unica del senso? Potrà esserci qualcosa che tragga le conseguenze di quella “primitività [che] si mischia patologicamente alla sofisticazione” del “degrado allo stesso tempo animalesco e barocco” che Rezza fonda in scena?
Le citazioni, come quella in apertura, sono tratte da un saggio di Matteo Marchesini su Ermanno Cavazzoni, quello del “Poema dei lunatici”, da cui Fellini trasse il suo ultimo film “La voce della luna”. Non è il caso di sussumere la presenza borderline di Rezza a quel mondo padano e sbriciolato dei personaggi di Cavazzoni (nemmeno nella semplificazione felliniana), né di istituire collegamenti fra i due autori se non quello della lunaticità/follia con cui spesso si tenta di risolvere la poesia dell’uno e quella dell’altro. Però si racconta, in quel libro di Cavazzoni, di Alessandro Magno e del suo esercito che, procedendo per la loro missione ai confini del mondo, verso est, piano piano perdono i loro usi, dimenticandoli o ibridandoli con quelli delle popolazioni che, di volta in volta, incontrano sul loro cammino: ora turbanti al posto degli elmi, ora reti di vimini, foglie, fango seccato come corazze, ora frasi straniere per parlare d’amore la notte alle donne o struzzi, pecore, elefanti, coccodrilli, persino un boa come nuove cavalcature.
Cosa diventano i guerrieri macedoni? Cosa c’è alla fine di quel viaggio? Alla morte di Alessandro, ci racconta Cavazzoni, daranno vita a “una casta di domatori”. Più profondamente, spostando sempre più lontano i confini della propria lingua e della propria esperienza, essi perdono una lingua di comunicazione comprensibile, rischiano di “far la figura di esser dementi”.
Ora, benché Rezza e Mastrella rimangano indefettibilmente autoctoni a sé stessi, e il loro viaggio sia piuttosto un girare attorno inesausto, e nonostante sia doveroso elogiare la capacità dei due di rimanere comunicativi, efficaci (non fa questo parte di quelle ascendenze popolari con cui si apriva?), credo che l’augurio migliore che si possa fare a un loro prossimo lavoro sia invece che, dopo aver attraversato i deserti, le vette, le più strane città della propria creatura (quel corpo vocale di cui si diceva), arrivino a rendersi fino in fondo, come un fischio, come uno sparo, incomprensibili, dementi.
HỲBRIS
di Flavia Mastrella Antonio Rezza
con Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara Perrini, Enzo Di Norscia, Antonella Rizzo, Daniele Cavaioli
e con la partecipazione straordinaria di Maria Grazia Sughi
(mai) scritto da Antonio Rezza
habitat Flavia Mastrella
assistente alla creazione Massimo Camilli
disegno luci Daria Grispino
organizzazione generale Marta Gagliardi Stefania Saltarelli
macchinista Andrea Zanarini
una produzione RezzaMastrella, La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Teatro di Sardegna
ufficio stampa Chiara Crupi – Artinconnessione
durata: 1h 10′
applausi del pubblico: 3′
Visto a Spoleto, Festival dei Due Mondi, l’8 luglio 2022