Il Premio Hystrio ha proclamato i suoi vincitori al teatro Elfo Puccini di Milano, trasformandosi in un lungo fine settimana di eventi e spettacoli
Buone notizie dal Premio Hystrio, che è diventato anche un festival curato dal trimestrale omonimo diretto da Claudia Cannella, e che si è tenuto al Teatro Elfo Puccini di Milano dal 15 al 19 settembre.
Hystrio ha assegnato il premio per l’interpretazione a Valentina Picello, e ne siamo felici. Perché tra gli artisti e le artiste della scena italiana, Picello ha la capacità rara di condensare in un solo sguardo il nodo folle delle contraddizioni che accompagnano l’esistenza umana, e di sviscerarlo con una naturalezza che lascia senza fiato.
I riconoscimenti sono andati anche a Veronica Cruciani per la regia e a Letizia Russo per la drammaturgia. Premiati anche Terreni Creativi Festival (Premio Hystrio – Altre Muse), Controcanto Collettivo (Premio Hystrio – Iceberg), Roberto Zappalà (Premio Hystrio – Corpo a Corpo), “Le sedie”, regia di Valerio Binasco (Premio Hystrio – Twister), Matteo Caniglia (Premio Hystrio – Scritture di Scena) e infine Alfonso De Vreese e Alice Francesca Redini (Premio Mariangela Melato).
Inoltre, una giuria composta da Ferdinando Bruni, Fabrizio Caleffi, la stessa Cannella, Arturo Cirillo, Monica Conti, Veronica Cruciani, Andrea Paolucci, Roberto Rustioni, Gilberto Santini e Serena Sinigaglia ha assegnato il Premio Hystrio alla Vocazione 2022 a Fabrizio Costella e Cristiana Tramparulo e il Premio Ugo Ronfani, destinato ai più giovani con un percorso formativo ancora da concludere, a Matilda Farrington e Fabrizio Costella.
Il festival ha certificato la freschezza della scena italiana under 35: la capacità di esprimere idee e uno stile; il bisogno di stabilire con il pubblico un confronto umano e intellettuale.
Abbiamo assistito a sei spettacoli capaci di accostare temi come il liberismo, la psicologia sociale, il rapporto di coppia, superando stereotipi e semplificazioni. Da una generazione cui si rimprovera sbrigativamente un approccio superficiale alla storia, arrivano intriganti lavori di riflessione su personaggi come Alessandro Magno, Lutero e Hitler.
Di questi spettacoli abbiamo apprezzato la briosità dei testi, l’icasticità delle regie, la maturità degli attori. Non ci soffermeremo su “Non è un’opera buona” di Servomuto Teatro, né su “L’ombra lunga del nano” di Les Moustaches, recensiti a parte.
“’E cammarere”, produzione Ri.Te.Na. Teatro, spettacolo vincitore del Premio Intransito, è la riproposizione in salsa partenopea delle “Serve” di Genet. Ma qui siamo in un basso napoletano, e le due brave protagoniste Francesca Fedeli e Maria Claudia Pesapane sono sorelle che duettano unite, divise, dissolute. Spaziano dallo slancio affettivo all’imprecazione, al turbamento. Battono sul registro di una lingua napoletana viscerale. È un dialetto criptico, del quale carpiamo più la musicalità che i significati. Tanto basta, perché qui conta non il valore in sé della parola, ma quello della gestualità e della prossemica che la accompagnano. Non il contenuto, ma il modo. L’essenza comunicativa passa attraverso il linguaggio non verbale. La parola è profetica e poietica. Ha la consistenza di una scultura e la ricchezza di un’orchestra.
L’ambientazione scelta dall’autore e regista Fabio Di Gesto è troppo angusta e sciatta per credere che sia un appartamento signorile: un vaso con una pianta derelitta; una poltrona dallo smalto scrostato; uno stendino a vista; delle scope che non bastano a volare come in “Miracolo a Milano”, ma scandiscono il desiderio di evadere a tempo di musica.
La padrona di casa evocata non si palesa mai, tanto che viene il sospetto che essa stessa sia frutto dell’immaginazione. In questo spazio claustrofobico, le protagoniste sono nascoste da una luce rarefatta. Esse giocano ripetutamente alla serva e alla padrona con un solo cambio d’abito. Filastrocche, canti, balli, giaculatorie, preghiere. Rimproveri, imprecazioni, violenza. Il ritmo di una lingua che è quella più di Masaniello che di Eduardo, e sfuma in un orizzonte onirico. Nel quale fanno capolino la follia e il crimine. Con la speranza recondita che anche i fatti più crudi siano prodotto dell’immaginazione.
Le persone infelici sono pericolose. “La gloria”, testo di Fabrizio Sinisi, regia di Mario Scandale, con Alessandro Bay Rossi, Dario Caccuri e Marina Occhionero, racconta i sogni infranti di Adolf Hitler quando a soli 18 anni si trasferì a Vienna per entrare all’Accademia di Belle Arti e diventare pittore. Ma il talento è come il coraggio di don Abbondio: chi non ce l’ha, non se lo può dare. Il talento nasce dalle ferite: quelle che si hanno, non quelle che si danno. Una vita misera da bohemien e artista irrealizzato. La difficoltà di pagare l’affitto, condivisa con il compagno d’avventura August Kubizek. Che invece i propri talenti nella musica li mise a frutto. Forse perché sapeva amare, come la sua allieva Stefanie.
Qui l’amore è salvifico, e aleggia nelle luci disegnate da Camilla Piccioni. Le luci intersecano i video montati da Leo Merati secondo un approccio intuitivo. Con conclamati anacronismi e senza didascalismi. Le didascalie sono invece nelle parole, rarefatti contributi testuali proiettati sullo sfondo: alla maniera di Latella, condensano una drammaturgia non priva di preziosità poetiche e riverberi politici.
Bel lavoro, che non a caso ha già ottenuto dei riconoscimenti (spettacolo vincitore Forever Young 2019/20 – La Corte Ospitale, nomination Ubu 2021 per la categoria “Nuovo testo italiano/scrittura drammaturgica e nomination Ubu 2021 per Marina Occhionero e Alessandro Bay Rossi come miglior attrice/attore under 35) e si accinge al secondo capitolo, intitolato “Incendi”, di una trilogia dedicata a Hitler.
Durò pochi anni il delirio imperialista di Adolf Hitler, ma furono abbastanza per coprire l’Europa di sangue e macerie. Alessandro Magno invece provò a creare un impero euro-afro-asiatico su basi cosmopolite e sincretiche. Da questo presupposto, nasce “Le Etiopiche”, lavoro di Mattia Cason ed EN_KNAP Group.
Musica e storia, letteratura e filosofia. Visual art e cinema. Costumi (di Katarina Markov, Claudia Cavagnis, Paola D’Incà, Andrea Ferleti) che arrivano direttamente da una storia appena emancipatasi dalla preistoria. Melting pot ironico, dove tante lingue, dal greco antico all’arabo, hanno diritto di cittadinanza. E una poetica multiforme, con incursioni nella danza e nel teatro di figura. Schizofrenia diacronica: si passa con nonchalance dal conflitto tra Alessandro e Memnone di Rodi alla Vienna di Mahler e Wittgenstein, dalla pace di Brest-Litovsk a Gaza, dall’incendio di Smirne del 1922 alla campagna fascio-coloniale d’Etiopia del 1935, per arrivare all’Afghanistan dei talebani.
La verità è che Cason (anche in scena con Katja Kolarič, Rada Kovačević, Tamás Tuza, Carolina Alessandra Valentini) scandaglia le variegate facce della guerra, per postulare una smilitarizzazione che conduca a quella che per lui è la migliore Europa possibile: capace di guardare oltre il proprio ombelico, per fare di tre continenti un unico epicentro cosmico. Superando gli steccati. Con lo sguardo rivolto al mare. E al passato per costruire il futuro.
Linguaggio inclusivo, ritmi mediterranei, volti multicolori. La meditazione mistica dei dervisci come filo conduttore. L’audacia coreografica di Cason crea bizzarrie carnascialesche. I pezzi, ibridi, sono assembrati in modo strambo, valorizzati dalle luci di Aleksander Plut e dall’animazione di Alessandro Conte e Roberto Ranon. Le figure si muovono come automi, eppure cercano sempre l’unisono.
“Le Etiopiche”, vincitore del Premio Scenario 2021, è una trama di metamorfosi, un caleidoscopio di stimoli bislacchi che coinvolge il pubblico in un rito collettivo. Riflettendo sugli input di questo lavoro, scaviamo nella mirabolante intimità della natura umana, allontanando la volontà di potenza e gli egoismi che vi albergano. E proviamo attraverso il rito del teatro, almeno per un’ora, a esorcizzare distruzione, guerra, morte. E a disperdere l’odore nauseabondo di un potere sordo, cieco, senza Dio e senza ritegno.
Chiusura del festival nel segno dell’ironia con “Oh, little man”, testo e regia di Giovanni Ortoleva, spettacolo vincitore del bando Supernova al Festival di Pergine 2019. Edoardo Sorgente, nei panni di un broker impegnato in una crociera, riceve in sogno il monito a vendere i suoi titoli finanziari prima che un crollo del mercato gli faccia perdere l’intero capitale. Scenario apocalittico non troppo lontano dalla realtà, visti i chiari di luna che accompagnano questo scomodo passaggio storico. Peccato che sulla nave non si trovi un telefono per collegarsi alla terraferma. Sorgente incarna l’Homo economicus destabilizzato e disorientato, che finisce per perdere i pezzi, dal cuore al ginocchio, e cola a picco come il Titanic, come la Borsa di Wall Street nel 1929. Sono gli effetti del capitalismo. Soldi, egoismo, efficientismo di pastafrolla. Crisi finanziaria e crisi di valori. Psicodramma della dissoluzione. Uno stile sardonico per mettere in scena sentimenti morbosi. I deliri della commedia umana. Una sorta di outing individuale e collettivo, per giudicare le perversioni dell’economia e ridisegnare la nostra piramide delle priorità.
Cue Press, 2021
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