Dieci in scena: otto uomini e due donne. Sei degli uomini sono kenioti, giovanissimi. Gli altri sono italiani. Danzano. Ognuno per sé, immersi nel bianco e separati da corsie. Ognuno danza la propria storia, in ostinata solitudine, anche se sono fianco a fianco, anche se le storie che raccontano narrano un dolore universale e condiviso, quel “freddo dentro” che in lingua kswailii si chiama “kiguiza baridii”.
“Living in fear and loneliness is natural in anyone’s life”, la paura e la solitudine sono naturali: con questa precoce saggezza i danzatori-acrobati Afro Jungle Jeegs arrivano in Italia per mostrarci il loro vivere in bilico, acrobati in scena come nella realtà, con la loro esemplare capacità di accettare i fatti senza annichilirsi. Qui da noi iniziano una collaborazione con i ballerini capitanati dall’eccezionale Michela Lucenti, di cui una scena flash iperrealista svela il carattere d’acciaio, lo stesso che le permette di muoversi sul palco come un cyborg.
Quello di Balletto Civile e Artificio23 è teatro totale: la parola è scarnificata, ridotta all’essenziale, immagini ed emozioni sono affidate al semplice suono che crea significato. Le intenzioni sono invece lasciate ai corpi; sono braccia, gambe, torsi che parlano. Il rischio però c’è: lo spettacolo risente infatti di una drammaturgia labile che si limita ad accennare, lasciando al pubblico il compito non facile di trovare un filo conduttore tra le tante storie e individuare metafore, interpretare simboli, come avviene in chiusura di show, quando i danzatori indossano le maschere di quelle papere evocate nella storia di uno dei protagonisti.
Ma è un tale incanto guardare i ballerini muoversi come proiezioni virtuali create da effetti speciali, che delle storie ci si può anche dimenticare. La fusione tra italiani e kenioti è perfettamente riuscita, il risultato è una danza ipnotica e metropolitana di corpi immersi in musiche a tratti struggenti, a tratti alienanti, che da gesti di raffinata poetica riescono a esplodere una grande concretezza. Violenza, repressione, ipocrisia, rabbia, solitudine, paura, sottomissione e dominio: ecco i temi di questo incontro tra culture. Gli autori hanno voluto portare sulla scena anche un po’ del loro reale quotidiano, perché sia chiaro che “I Prodotti” nasce da tensioni e difficoltà, di relazione ma anche materiali, quando i soldi, anche quelli per fare uno spettacolo, sono alla base di tutto, ma il lavoro per ottenerli è diventato un privilegio raro.
I PRODOTTI
teatro fisico per sei acrobati di Nairobi e danzatori anomali
produzione: BALLETTO CIVILE/ARTIFICIO23
ideazione e regia: Michela Lucenti e Leonardo Pischedda
coreografia: Michela Lucenti/Balletto Civile
interpreti: Emanuele Braga, Maurizio Camilli, Michela Lucenti, Asamba Peter Willis Kuria, Were Stephine Odhiambo, Onacha Erik Odida, Agero Nicholas Onyango, Raudo Hamphrey Omondi, Emanuela Serra, Mboka Churchill Wandanda
scene: Michela Lucenti e Leonardo Pischedda
costumi: Federica Genovesi
durata spettacolo: 60′
applausi del pubblico: 3′ 45”
Visto a Genova, Teatro della Tosse, il 10 dicembre 2009
grazie a te, daniele, a presto
Ma certo che era sui commenti. Non mi permetterei di criticare le vostre critiche. Di minchiate irragionevoli ne ho lette sia sulle vostre pagine che su quelle del manifesto o di ateatro. Come ho letto cose splendide da ambo le parti, e non lo scrivo per par condicio, ma perché il principio di autorevolezza per me non è un principio e l’intelligenza e le capacità di analisi posson prescinder dal curriculum, e al limite, dalla competenza. Il giudizio su un articolo è nel singolo articolo, non a priopri sulla testata. Certo, la testata può dare un credito pre-lettura a me che leggo, ma fino a un certo punto. E poi la spocchia è davvero l’unica cosa da tenere in prigione. E poi in fin dei conti la critica competente mi interessa fino a un certo punto, anche perché le competenze di questa critica a un certo punto si fermano, se prima o dopo quelle di un redattore di Klp poco mi interessa. Mi interessa molto di più l’onestà intellettuale. E generalmente ve la riconosco sempre. Baci e buon lavoro.
Carissimo Daniele, mi fa tanto piacere sapere che leggi il nostro giornale quasi quotidianamente.
Io un po’ mi associo a te, ma lo faccio da redattore di questa rivista. Non blog, ma testata giornalistica registrata a un Tribunale.
Ogni giornalista sa e la maggior parte delle persone intuitive possono immaginare che qualsiasi forma di giornalismo prevede per statuto uno spazio dedicato alla replica. Se guardate in fondo a ogni giornale c’è lo spazio dedicato ai commenti dei lettori. Io ho lavorato anche in redazioni cartacee nelle quali, prima di pubblicare il commento di un lettore a un pezzo firmato e/o alle opinioni di quella firma stessa, si opera una severa selezione. Selezione spesso dettata dalle necessità di filtrare certi atteggiamenti riottosi scatenati – misteriosamente ma nemmeno tanto – nei lettori dalla stessa libertà di replica che un giornale libero è tenuto ad assicurare.
Il giornalismo online ha cambiato molte cose e le sta ancora cambiando. Nonostante io trovi svilente il fatto di dover ancora spiegare per telefono a un capo ufficio stampa che una testata online non ha niente di diverso da una testata cartacea (né a livello legale né tantomeno a livello di scala di valori), comprendo che questo cambiamento continuo non da tutti possa essere avvertito con la stessa prontezza di riflessi.
Certo è che – lo dimostrano queste discussioni “in tempo reale” – una rivista online offre ai lettori una possibilità di replica molto più immediata, dato che quasi tutte le testate telematiche mettono a disposizione un tool di commento facile da usare e senza alcuna censura.
Detto tutto questo (in maniera anche noiosa ma precisa) mi dico comunque un po’ scoraggiato dal fatto che sempre più spesso, ultimamente, la grande libertà di replica offerta da questo mezzo si tramuta in terreno fertile per quanti abbiano voglia di dire la propria. In linea di massima andrebbe anche bene, nei limiti di uno scambio di opinioni. A margine di diversi altri articoli si possono trovare commenti virtuosi, inseriti con il solo intento di scambiare quelle opinioni. Ma sempre più spesso il commento arriva da persone che, più che dire la propria, la impongono.
Insomma, davvero dobbiamo ancora leggere: “Non è un caso che lo spettacolo, debuttato niente meno che a Spoleto non ha avuto recensioni entusiastiche”?! Come se non capitasse invece mai di trovare una critica divisa su un lavoro. Io non credo che il fatto che la maggior parte della critica parli male dello spettacolo significhi che lo spettacolo non ha valore. Credo con molta più facilità che gran parte delle critiche che appaiono, ad esempio, sui quotidiani cartacei abbiano troppo poco spazio per dar conto di una riflessione accurata come quella che spesso si trova invece su spazi critici online, come Klp o come Ateatro.
La cosa che non approvo – e qui mi riallaccio a Bruno – è il tono spocchioso di chi sbandiera addirittura il numero di pezzi pubblicati: io non credo che tra professionisti ci sia bisogno di darsi credito a vicenda. A rigor di logica il curriculum di Antonin Artaud era di certo più breve di quello di Pippo Franco. Eppure…
La mia domanda a Daniele è: che significa “scrivete qualcosa di meglio ve ne prego?”
Ti riferisci alle critiche o ai commenti?
Scusate se abbasso il livello della discussione ma ragione o torto, in merito allo spettacolo e ai meriti o meno di ateatro rispetto a Klp, scusate se ve lo dico in sintesi, ma l’intera discussione aperta dalla Monteverdi e soprattutto lo sviluppo del “discorso” di post in post, come anche la polemichetta sui blog e le pagine web auto create, scusate se ve lo dico, scusate davvero, scusate se lo dico – e scusatemi se non è la prima volta che lo dico, lo ebbi a dire in passato in una analoga querelle in merito ad un vecchio articolo su Amnesiavivace.it – ma insomma, tutto ciò, visto da fuori, proprio perché so chi è la redazione di Klp e chi è la buona e brava Monteverdi, tutto ciò è veramente ridicolo e patetico: ma basta.
Siete, o almeno lo è senz’altro la Monteverdi, visto che adduce 190 articoli a riprova, degli “osservatori esperti del teatro”, perché dunque non scrivete qualcosa di meglio? ve ne prego. Per favore. Io capisco il fervore della discussione, gli animi che si accendono, l’urgenza del dire, ma a ripensarci bene, correggo quel che ho detto in apertura sul livello della cosiddetta discussione, e scusatemi se son costretto, rileggendo i post precedenti, a rettificare quanto ho detto: più in basso di così non si può scendere.
Sù, sù. Risaliamo insieme la china. C’è la luce del Sole in cima!
A dire il vero sembrerebbe proprio di sì, cara signora Monteverdi… non Ateatro (legga bene il commento precedente al suo) ma Lei.
In primo luogo per la sequela di titoli che non ha lesinato di enumerarci, nonostante non fossero minimamente indispensabili al merito della sua critica.
In secondo luogo per il confronto che non ha esitato a imporre fra “La più importante e longeva rivista di teatro on line”, la sua (rivista che fra l’altro apprezziamo e stimiamo ma verso la quale, nelle occasionali circostanze di dissenso, non ci sfiorerebbe neanche lontanamente l’idea di esternarlo per mezzo di toni zeppi di autoreferenzialità come quelli da Lei usati) e questo blog (che blog non è più ormai da tempo, che le piaccia o no) su cui ci si può trovare di tutto, ma veramente di tutto, incluse le invettive di un’autorevole nome della critica teatrale italiana che decide di prendersi uno spazio ed onorarci della sua presenza.
Cordialmente
e secondo Lei Ateatro ha bisogno di pubblicità? Ahhhahhha
Fantastici questi blog….ci puoi trovare di tutto
Concordo sull’autocritica. Sembra invece che lei ami molto farsi pubblicità. Ma noi questo spazio glielo concediamo volentieri! Buon lavoro!
Gentile redattrice,
io insegno è vero, ma scrivo anche. E non recensioni ma approfondimenti. Dal 2001 continuativamente ho firmato qualcosa come 190 articoli sulla rivista ateatro.it fondata da me e Oliviero Ponte di Pino, penna autorevole del Manifesto per 20 anni. La più importante e longeva rivista di teatro on line, nata molto ma molto prima del vostro blog. Io non parlo dalla cattedra ma dall’osservatorio di critica teatrale. Io apprezzo ogni valutazione di uno spettacolo ma obiettivamente con questa recensione avete sbagliato strada. Non basta cucire insieme operazioni finto interculturali, bisogna crederci veramente come fanno Le Albe, Peter Brook ecc ecc. Non esisteva drammaturgia, non c’era amalgama e l’operazione in sé era finta come l’oro di Bologna e stava insieme come i castelli di carta. Non è un caso che lo spettacolo, debuttato niente meno che a Spoleto non ha avuto recensioni entusiastiche e persino Capitta nel Manifesto era tiepido e tenue, offrendogli la chance del “lo spettacolo deve rodare” che agli addetti ai lavori suona come un ” non ne posso dire male”….Le critiche fanno bene agli artisti e se mi permette, anche a chi ne scrive. I blog, i siti dedicati, le pagine su facebook sono zeppe di queste notizie e di chi si crede critico perché può riempire una pagina web autocreata. L’approfondimento, l’attenzione, è un’altra cosa. Mi spiace, non le devo insegnare niente, ma a volte un po’ di auto-critica fa bene.
Cordiali saluti
Anna Maria MOnteverdi
Gentile professoressa,
noi non vantiamo titoli. Siamo semplici spettatori, curiosi, se vuole inadeguati e “spartani”, che guardano il teatro (e la danza) e hanno il piacere di esprimersi, nel bene e nel male. Klp non è un’università (per fortuna), e noi mai ci siamo spacciati o lo faremo in futuro per docenti. Quello che amiamo e difendiamo è semmai la libertà d’opinione: la nostra come la altrui, tanto che non censuriamo mai nessuno, come vede.
Ma riscontriamo spesso, invece, come ad alcuni piaccia “aggredire”, magari dall’alto di cattedre o palcoscenici.
Eppure c’è sempre tanto da imparare, per tutti. O si potrebbe rischiare d’inciampare nell’autoreferenzialità.
Sono molti i fattori di cui si deve tener conto quando si recensisce uno
spettacolo. De ‘I prodotti’ ho voluto premiare in primo luogo l’operazione:
di fatto in scena (e fuori, durante la preparazione) ballerini italiani e
kenyoti hanno interagito, questo di per sé costituisce un impegno forte – di
cui mi piacerebbe vedere più spesso esempio – e manda un messaggio chiaro.
In secondo luogo, ho apprezzato l’elevatezza della tecnica e l’efficacia
delle coreografie. In terzo luogo, poi, ho rilevato una carenza nella parte
drammaturgica che ha reso il discorso frammentario e a tratti superficiale.
Questi in sintesi gli elementi che hanno dato luogo al mio giudizio.
Non mi è parso che durante lo spettacolo si elencassero le virtù delle
compagnie italiane che avrebbero ‘recuperato’ i ballerini kenyoti, anzi è
stato raccontato come questi ultimi stessero già lavorando in Italia e si
fossero fatti notare in alcuni festival. Non si è detto nemmeno che costino
molto, al contrario, la Lucenti ha raccontato di aver fatto loro una
proposta che prevedeva solo tre ballerini ma i cinque kenyoti hanno
insistito per lavorare comunque tutti insieme mantenendo lo stesso budget.
Infine, la proiezione sullo schermo delle spese sostenute: certamente è
stato poco elegante, ma forse per una volta può essere utile che il pubblico
sia reso cosciente che i biglietti, spesso salati, pagati per vedere uno
spettacolo, in molti casi non bastano nemmeno a coprirne le spese.
Gentile REDAZIONE
Io ho trovato lo spettacolo soltanto altamente ma altamente irritante, con lo svolgimento sul tema dell’integrazione razziale da scuola elementare (ma le prime classi…), e trovo strano che un “autorevole” blog come questo si limiti a descrivere le acrobazie degli artisti africani (che appunto, fanno quello di mestiere nelle piazze con una bravura paurosa) senza riflettere sul fatto che coreografare abilità altrui è un mestiere……..e non tutti lo sanno fare…….
Ma ciò che mi fa veramente incavolare è ciò che il vostro blog non rileva: la tematica è una vera presa per il culo degli spettatori. Passa per spettacolo politico ma è una mistificazione bella e buona, anzi vergognosa.
Elencare le presunte virtù della compagnia Artifico 23 o Balletto civile che ha “recuperato” gli africani, che mangiano tanto e costano tanto, ma che grazie a loro sono in Italia a lavorare nei teatri e che purtroppo la situazione dei teatri in Italia è tragica per via dei finziamenti……..Elecando le (SOB!) SPESE!!!!!!!
MA SCHERZIAMO? Se uno non ha la coscienza cristallina dovrebbe stare ZITTO. Artifico 23 riceve una montagna di finanziamenti per le sue attività. Di un anno fa circa è un articolo su REPUBBLICA di Genova di una giornalista che metteva nero su bianco sui ricchi e i poveri del teatro della Liguria e veniva nominato Artificio 23 diretto da Leonardo Pischedda figlio di Antonello Pischedda pezzo da novanta del teatro italiano. Fare recensioni significa anche informarsi sul contesto in cui gli artisti operano.
Avevo pronta una stroncatura da mettere su ateatro.it che ho fondato con O.P.d.P.. ma mi sembrava solo di dar loro importanza. Qualcuno però, come vedo da questo blog, è caduto nella rete………Che questo sia un teatro totale poi….le rispondo con TOTO’: ma mi faccia il piacere!!!!! Per le scritte del conto della serva che appaiono proiettate sullo schermo,????Ma si riprenda, suvvia…vada a vedere Lepage, Goebbels, Wilson.
Nessuno delle persone che erano con me ha apprezzato l’operazione, finta e costruita a tavolino, non ci voleva granché a capirlo. Del resto al teatro alla Tosse di GE c’erano praticamente solo le scuole …(appunto, il tema dell’integrazione razziale fa vendere lo spettacolo….)
Questa è la mia opinione da osservatrice esperta del teatro contemporaneo che usa i media.
Attendiamo in ben altre prestazioni Michela Lucenti che è artista seria e preparata come dimostra la storia del Balleto Civile e le suggeriamo di fare attenzione alle collaborazioni pericolose con persone dallo scarso curriculum ma dalle spalle molto ben coperte. Fruttano tanto per le tournée che si riesce ad agganciare ma il gioco non so quanto valga la candela….La reputazione per un artista è la prima cosa…
Cordialità
Anna Maria Monteverdi
ateatro.it
docente di Forme dello spettacolo Multimediale DAMS di GENOVA