Si è tenuto quest’autunno il ventitreesimo Incontro Nazionale dei Teatri Invisibili, da sempre organizzato a San Benedetto del Tronto, ma che da qualche tempo si appoggia anche ad un’altra gemma del litorale meridionale delle Marche, ovvero il vicino comune di Grottammare. La tre giorni degli Invisibili, con la storica direzione artistica del Laboratorio Teatrale Re Nudo, quest’anno ha portato nella provincia picena, tra le altre cose, il teatro di narrazione di Giuliana Musso (“La fabbrica dei preti”), Mario Perrotta (“Milite ignoto”), Oscar De Summa (“La sorella di Gesucristo”); il teatro danza di Cesare Benedetti e Riccardo Olivier (“iLove”); l’indagine sociale e drammaturgica de Gli Omini (“La famiglia Campione”).
I Teatri Invisibili oggi hanno le sembianze di un piccolo festival, e il grande merito di proporre i linguaggi della drammaturgia contemporanea, con dedizione maieutica, ad un pubblico abituato – com’è spesso quello di provincia – alle stagioni tradizionali. Ma i Teatri Invisibili nascondono molto di più: riavvolgiamo il nastro (e quale sede migliore di Krapp ci sarebbe per farlo?), tornando alla metà degli anni Novanta, alla gioventù del Re Nudo e alle primissime edizioni dell’Incontro Nazionale. Scopriamo che proprio qui, sulle sponde adriatiche più placide, ma evidentemente non così decentrate, c’è stato uno dei momenti più importanti della storia del teatro italiano degli ultimi decenni. Quella che Saverio La Ruina, uno tra i primi protagonisti e ospiti degli Invisibili, ha definito la prima rivoluzione teatrale partita dal basso. E non è l’unico.
Marco De Marinis, professore ordinario a Bologna in Discipline Teatrali, ha scritto nel suo “Il teatro dopo l’età d’oro. Novecento e oltre” (Bulzoni, 2013): «Pur con tutti i limiti e le contraddizioni del caso, i Teatri Invisibili, fenomeno esploso in Italia alla metà degli anni Novanta, sono stati molto di più di una pura e semplice (e per altro legittima) azione sindacal-corporativa di autopromozione, della mera richiesta (anch’essa per altro legittima) di un qualche accesso al sistema delle sovvenzioni pubbliche: essi sono stato un vero movimento, almeno nel quinquennio d’oro 1995-2000. Era dagli anni Settanta che il nostro teatro non aveva più a che fare con un autentico movimento teatrale». Le prime edizioni degli Invisibili sono nate in uno spirito di comunità e autocoscienza, in polemica con i circuiti ufficiali, ministeriali, privilegiati e spesso iperfinanziati, rispetto a cui un’intera generazione che faceva teatro in modo diverso si era sentita chiusa fuori. Ben prima dell’occupazione del Teatro Valle, la generazione degli Invisibili lottava per nuove politiche culturali, e aveva già intravisto il pericolo di una dialettica pasoliniana: che il teatro istituzionale, cioè, disinneschi il potenziale eversivo dei nuovi linguaggi teatrali con la moda del nuovismo e del giovanilismo, sminuendone la forza nei confini commerciali del genere, del prodotto. A San Benedetto del Tronto, una cittadina in provincia di Ascoli Piceno non certo abituata alle avanguardie artistiche e alle drammaturgie forsennate, si erano ritrovate all’improvviso le forze più vive e innovative del teatro della Penisola. Forse è vero, allora, che i Teatri Invisibili sono stati l’ultimo movimento vero del Teatro Italiano, anzi, un movimento «nato quando nessuno pensava più che fosse ancora possibile dar vita a un movimento teatrale» (p. 382). Lo sostiene anche Pierfrancesco Giannangeli, in un libro tutto dedicato alla storia degli Invisibili e del Re Nudo, uscito nel 2010 per Titivillus, «Invisibili realtà. Memorie di Re Nudo e Incontri per un nuovo teatro (1987-2009)».
Il Laboratorio Teatrale Re Nudo ha fin dalla sua fondazione, sempre mutuando le parole di De Marinis, un «testardo, straordinario leader, Piergiorgio Cinì, la vera anima dei Teatri Invisibili». E allora proprio con Cinì, che continua a lavorare a San Benedetto con i suoi spettacoli e i suoi laboratori, abbiamo scambiato quattro chiacchiere. Per farci raccontare meglio la storia passata, senza dimenticare il futuro.
Attraverso gli incontri dei Teatri Invisibili sono passati tantissimi protagonisti del teatro contemporaneo, che hanno poi seguìto un percorso importante: Ascanio Celestini, Andrea Cosentino, Daniele Timpano, Babilonia Teatri, Scena Verticale…
Partiamo dalla fine, allora: se ti guardi indietro, sei soddisfatto dell’esperienza di tutte queste edizioni? Quali sono state le gratificazioni e quali le difficoltà di un lavoro così lungo, che ha saputo portare il teatro contemporaneo nella provincia marchigiana?
Abbiamo fatto spesso questo esame di coscienza. Non solo siamo contenti di aver portato una drammaturgia innovativa nel Piceno, ma anche di aver dato a tante compagnie la possibilità di esibirsi. Dopo il primo grande momento dei Teatri Invisibili, in cui – come ha scritto De Marinis – siamo stati un vero e proprio movimento, per lo meno anche all’interno dei circuiti ufficiali si sono creati degli spazi dedicati alla drammaturgia contemporanea e al teatro di ricerca (anche se tutto il teatro dovrebbe essere di ricerca). Questo sicuramente è un obiettivo raggiunto. Chiaramente, negli anni seguenti al picco del movimento, le difficoltà sono state sia di natura economica (non ci siamo più potuti permettere le grandi adunate di un tempo, quando riuscivamo ad ospitare anche una settantina di gruppi) sia di natura politica, dovendo far riferimento agli organi locali e confrontarsi con i vari amministratori, che spesso venivano da storie completamente diverse rispetto alla nostra, e non sempre hanno capito l’importanza di ciò che avevano per le mani. Però siamo stati tenaci e abbiamo resistito, tenendo aperta una piccola finestra, quella delle edizioni recenti. Anche se è difficile: oltre alla complessità intrinseca di proporre teatro oggi, dobbiamo affrontare il pregiudizio che identifica il teatro come luogo noioso, dove si chiede un impegno intellettuale eccessivo. In realtà noi siamo per un teatro veramente popolare, come diceva Leo de Berardinis, che non è il teatro che abbassa il suo livello per diventare un teatro di quart’ordine, ma cerca di avvicinarsi a più gente possibile con un linguaggio interessante, anche in chiave di divertimento vero, profondo. Cito De Berardinis perché è stato uno dei nostri maggiori riferimenti in passato.
L’hai conosciuto di persona?
Sì. Ci dette anche una sorta di imprimatur: in occasione della prima edizione dei Teatri Invisibili andai a Santarcangelo, dove lui era direttore artistico. Si interessò molto alle nostre proposte e in seguito è venuto due volte qui a San Benedetto. Si esibì in un teatro che occupavamo in modo un po’ rudimentale e semi-tollerato, con strutture un po’ posticce, e ci lasciò una dedica con scritto “uè guaglió, fate ‘nu teatro un po’ più ospitale…”. Il suo spettacolo, “Scaramouche”, partiva dalla drammaturgia di Molière per arrivare ad esiti fantastici: metteva insieme l’alto e il basso; quello che piacerebbe fare a noi, un teatro a più letture, che avvicini un pubblico più colto ma anche uno con meno strumenti di lettura. Questo è il vero teatro popolare.
Come si sono evoluti i Teatri Invisibili, dagli inizi alle ultime edizioni?
Le prime edizioni erano delle vere e proprie autoconvocazioni: era una scelta di politica culturale. Voleva dire che la domanda stessa di partecipazione, nei limiti delle nostre disponibilità, permetteva ad una compagnia di andare in scena ai Teatri Invisibili. Questo perché tutti gli altri festival di contemporaneo erano comunque chiusi, si faceva fatica a entrare. Agli Invisibili la selezione avveniva dopo. A volte abbiamo portato settanta gruppi, di cui venti meravigliosi e venti accettabili. Poi c’era la sezione degli inguardabili… Ma era entusiasmante. Il pubblico aveva capito il gioco. Gli artisti rimanevano qui quattro giorni, per tutti gli incontri, e c’era un osservatorio coordinato da critici e studiosi di teatro, ma anche dagli operatori stessi. Quindi l’osservatorio non si esauriva in una dissezione cadaverica dello spettacolo, come ogni tanto si usa fare a livello critico, ma diventava aiuto reciproco, un dialogo, con tante indicazioni su quali erano le cose più interessanti da sviluppare. Noi del Re Nudo, che eravamo sempre qui, abbiamo imparato tantissimo da questi incontri.
Chi animava questi osservatori?
All’inizio c’era Marco De Marinis, che è un nostro caro amico, essendo originario di queste parti. E poi Antonio Audino, Andrea Porcheddu, Massimo Marino…
Tutti nomi di riferimento per la critica teatrale.
Sì, e poi c’erano anche tanti altri insegnanti, maestri di teatro che lavoravano in varie parti d’Italia. Avevamo coinvolto molte persone, c’era grosso interesse, perché il nostro movimento aveva scosso alle radici il teatro, che ogni tanto ne ha bisogno. C’era spontaneità, e davvero tanta richiesta di partecipazione. Ricordo che nelle prime edizioni dei Teatri Invisibili, accanto alla sezione ufficiale, avevamo dovuto aprire una sezione “fringe”: Ascanio Celestini insegnava a realizzare artigianalmente le maschere, ad esempio, oppure le compagnie proponevano una sorta di primo studio di futuri spettacoli, o si parlava del proprio tipo di lavoro. In questo spazio non ufficiale abbiamo visto delle cose davvero molto belle. San Benedetto era diventato il cuore del nuovo teatro. Chiaramente questa libertà di espressione era facilmente attaccabile dall’establishment. È stato detto, ad esempio, che gli Invisibili erano il luogo della mediocrità. E, come ti dicevo, non nego che la sezione “inguardabili” esistesse. Abbiamo provato a rimediare proponendo una sezione di spettacoli a scelta: specificando che non volevamo imporre una direzione estetica, ma che quei lavori erano comunque quelli che ci convincevano di più. Molte delle compagnie che hanno cominciato dai Teatri Invisibili sono state viste e apprezzate e così sono entrate nella circuitazione nazionale. Avevamo partecipazione anche dai poli estremi dell’Italia, da Torino alla Sicilia. E siamo riusciti, in parte, a proporre un circuito alternativo a quello che al tempo era dell’Ente Teatrale Italiano: eravamo anche stati convocati in Parlamento da Veltroni, quando stava scrivendo la legge sul teatro. Dico “in parte” perché purtroppo ci è mancato il passo decisivo: è mancata la volontà di tutti, quella necessaria per investire dei soldi senza avere la certezza che uno spettacolo avrebbe effettivamente circuitato. Bisognava crederci. E lì il movimento perse forza, purtroppo.
E cosa è successo dopo questa prima fase comunitaria? Nella direzione artistica delle edizioni successive dei Teatri Invisibili, ad esempio, c’è un qualche fil rouge, oppure ogni edizione ha seguito una propria strada?
All’inizio la direzione artistica era collettiva, nello spirito della comunità e dell’incontro autoconvocato. Quindi avevamo scelto fra di noi chi avrebbe selezionato gli spettacoli. Negli anni seguenti siamo rimasti noi del Re Nudo, anche se ci consultiamo spesso con Gilberto Santini dell’AMAT. Un tempo il circuito dell’AMAT era un nostro antagonista, ma ormai possiamo considerarci collaboratori. Un fil rouge non c’è stato: non abbiamo mai limitato il campo della scelta. Semmai ci siamo lasciati emozionare, di volta in volta, da certe tematiche.
Nell’ultima edizione però ha avuto una centralità evidente il teatro di narrazione, con Perrotta, Musso, De Summa.
Sì, da una parte avevamo la volontà di dare visibilità a questo tipo di teatro, così come di portare da noi degli artisti che seguivamo da tempo e non eravamo riusciti a invitare prima; ma ci sono state anche le contingenze economiche con cui un festival non può fare a meno di confrontarsi. Tornando alle primissime edizioni dei Teatri Invisibili, una delle cose più belle era che le compagnie venivano con l’idea concreta di sostenere il festival, senza garanzie economiche. Le compagnie rinunciavano alle loro richieste abituali. Non lo facevano tutti, certo, ma molti sì.
Parlavamo dell’AMAT, prima concorrente e ora sostegno. Com’è il rapporto con le istituzioni che vi sostengono o vi dovrebbero sostenere?
Con l’AMAT e con Gilberto Santini, una persona che sa di teatro, c’è davvero un ottimo rapporto. E sostegno concreto. Riguardo alle istituzioni locali, c’è un grande feeling con Grottammare, che da anni come Comune ci sostiene con affidabilità, anche grazie ad un sindaco che ha una formazione culturale importante. Con San Benedetto purtroppo il rapporto è molto più ambiguo. Nei primi tempi avevamo avuto rapporti anche col Ministero, che pur essendo nostro antagonista ci diede un contributo.
Il teatro alto, ma che sa anche essere popolare, quello per cui si è battuto il movimento dei Teatri Invisibili, nella vostra esperienza è riuscito a intercettare quel pubblico abituato – anche soltanto per pigrizia – ad un teatro più tradizionale, più da stagione classica? Lo dico sempre nella consapevolezza dei limiti delle etichette.
Non è facile conquistare anche questo pubblico. Anche se poi è pure facile sorprendersi. Mi è successo con gli spettacoli della nostra compagnia, Re Nudo: abbiamo riempito il Teatro delle Energie di Grottammare con uno spettacolo su Pasolini, e il pubblico si è lasciato coinvolgere emotivamente. Con gli Invisibili gli esiti sono altalenanti: non è facile avere il teatro pieno per tutti gli spettacoli. Ma ci aiutano molto progetti dedicati alle scuole e promossi dall’AMAT, come ad esempio “Scuola di platea”.
Ecco: avete realizzato, in questi anni, progetti o laboratori critici rivolti all’educazione e alla formazione del pubblico? E’ una direzione che ormai viene seguita da tantissimi festival, anche se non sempre c’è la stessa qualità e intenzione pedagogica. Secondo me il lavoro nelle scuole è il modo più semplice per guidare l’avvicinamento del pubblico ad un teatro che sappia scommettere di più sui nuovi linguaggi: e forse è anche un modo per non farsi ingannare da quel teatro “alto” e “sperimentale” che purtroppo, diversamente da quello che si augurava De Berardinis, si compiace della sua identità senza vere intenzioni comunicative.
L’autoreferenzialità è contro il senso stesso del teatro. Come Re Nudo, abbiamo portato avanti progetti del genere per tanti anni. I rapporti con i ragazzi delle scuole sono sempre stati importanti per noi. Non soltanto per la loro formazione come pubblico, ma anche proponendo un’esperienza diretta del lavoro che può fare una compagnia teatrale. Abbiamo mostrato ai ragazzi qual è il percorso attraverso cui si arriva a mettere in scena testi anche non semplici, come il “Faust” di Marlowe: leggendo prima il testo a scuola sotto la nostra guida, e coinvolgendoli poi in laboratori sul linguaggio teatrale, arrivavamo alla vera e propria visione a teatro, mostrando loro come si passava alla messa in scena; e infine erano liberi di venire o no la sera a vedere l’esito finale dello spettacolo, senza essere costretti a deportazioni o visioni coatte… Sono state esperienze molto faticose, perché richiedono un impegno enorme, ma alla fine arrivavamo ad avere il teatro pieno di ragazzi. Quando abbiamo avuto in gestione il Concordia (il teatro principale di San Benedetto del Tronto, ndr) di giornate simili ne abbiamo fatte tante, cercando di avvicinare i più giovani ad un certo tipo di linguaggio teatrale, in cui noi crediamo. E la risposta c’era, assolutamente. Però è un lavoro che va fatto con continuità e che deve potersi appoggiare anche sull’apertura e la buona volontà degli insegnanti titolari nelle scuole.
Nell’ultima edizione ho visto tanti ragazzi in sala per “Milite ignoto”, lo spettacolo di Perrotta.
Sì, era il risultato della “Scuola di platea” di cui ti dicevo prima. C’era stata un’introduzione in classe allo spettacolo, che si prestava molto ad un lavoro del genere, parlando di Prima Guerra Mondiale. Abbiamo avuto ottime risposte dai ragazzi, che hanno scritto delle recensioni molto belle e che sono state pubblicate in un blog dell’AMAT, Abracadamat.
Per chiudere: raccontaci una cosa bella e una brutta di questi ventitré anni di Teatri Invisibili.
Ricordo benissimo le sensazioni della prima sera in assoluto del festival. C’era stata un’assemblea a Rovigo il 18 giugno e qualcuno aveva detto, con la solita retorica rivoluzionaria, “occupiamo teatralmente la città”. Uno slogan, insomma. Ma noi abbiamo risposto: “Va bene, facciamolo a San Benedetto!”. La gente fu presa in contropiede. Nel giro di due mesi, dal nulla, senza avere una sede né altro, ci siamo trovati a portare quaranta compagnie qui da noi. Una follia totale. E ricordo, appunto, l’emozione di vedere queste persone che arrivavano da tutta Italia, ospitate da noi, a portarci i loro spettacoli. Era questa l’emozione che ci dava la forza di ricominciare ogni anno il festival, pur nella follia dal punto di vista organizzativo, come ci diceva De Berardinis nella dedica che citavo all’inizio… Montavamo quattro, cinque spettacoli al giorno nello stesso posto e avevamo un service unico. Il ricordo brutto, invece, forse è il ritornello che ormai arriva ogni anno: smettiamo? È l’ultimo? Si fa tanta fatica e, nonostante la consapevolezza dell’importanza del nostro lavoro, lo scarso riconoscimento fa venire voglia di mollare. Ma poi ci diciamo che, se chiudessimo questa finestra, probabilmente non se ne aprirebbero più altre.