Di Copi si parla poco e in modo superficiale. Anche perché è un autore difficilissimo, in cui le parole risuonano semplici nella loro quotidiana volgarità e nel vuoto che il nostro tempo riserva ai dialoghi.
Così il geniale drammaturgo argentino è sempre una sfida difficile. Il suo testo su Evita Peron, poi, è arduo sia perché fotografa il lato morboso e torbido delle famiglie del potere, sia perché ha un respiro fintamente reale. Lei, povera, illegittima, che a 26 anni divenne la donna più potente d’Argentina e non solo, muore a 33 fra la disperazione del suo popolo.
Ma Copi vuole raccontarla diversamente. E il testo nel 1970, alla prima parigina, interpretato da Alfredo Arias travestito, scatenò le ire di nostalgici fascisti.
L’icona del postdittatoriale dal volto familiare, isterica malata terminale, riscritta in una tonalità pop e canzonatoria, dove la storia della Señora d’Argentina è ben lontana da quella che avrebbe ispirato Lloyd Webber per il celebre musical interpretato da Madonna e Banderas.
Pappi Corsicato sceglie per questo personaggio fintamente imperiale la sua Iaia Forte, forse per quella capacità di giocare sull’ambiguo che Copi racconta di Evita.
Così la abbiamo intervistata, mentre si sistema lo chignon, in vestaglia, prima di indossare il tailleur verde e i gioielli. Lei che sembra altezzosa e popolare insieme, come Evita fu, amante del lusso e dei gioielli eppure di origini miserabili, capace di recitare, lei regina di un popolo affamato. “Evita non aveva dimenticato le sue radici di attrice, d’istinto capiva il valore dell’immagine. E’ stata l’antesignana di quella politica-spettacolo oggi così imperante”.
Insomma, il personaggio che si vuole raccontare è davvero una via di mezzo, e in questo Copi fu davvero geniale a proporne una medietà che solo l’ottundimento ideologico non permettva di leggere a molti suoi contemporanei.
Come pure le note un po’ dolenti, che in un interno asettico cercano di descrivere un’umanità debole, un universo di potere, denaro, oro, gioielli (parole chiave per le drammaturgie del grande autore). E un po’ la Forte deve aver immaginato la sua Napoli, governata – nello stesso periodo al quale risale la drammaturgia – da figure al limite del dittatoriale. Con quel popolo deriso, che non appare mai, e che si squarcia in un’assenza di sonora e deflagrante cattiveria.
Sì, perché nessuno è potente senza l’accondiscendenza di chi lo rende tale, e in questo il gioco del potere è consapevolezza d’attore, scacco crudele di chi riesce a prendersi gioco lasciando al tutto una parvenza di aurea serietà.
Evita è un gioco di equilibri instabili. Ha i toni della telenovela postprandiale, a volte. Al regista, a chi maneggia il testo, l’abilità di prenderla sul serio o meno. Nei camerini del Teatro Sala Fontana di Milano, che l’anno scorso ha proposto davvero una stagione interessante, la nostra Evita che si trucca, che da popolana diventa regina, da Cenerentola si trasforma in principessa, ci rilascia un’intervista intima e vera, quella Iaia Forte che porta con sé personaggi femminili di straordinaria e crudele ambiguità, come l’Erodiade di Testori, a cui si aggiunge la regina degli affamati.