Uno scantinato squallido, due letti di fortuna rivestiti di lenzuola bianche e candidi cuscini, un apparecchio telefonico del bel tempo che fu: sono scarni gli elementi scenici de “Il Calapranzi” di Harold Pinter, qui per la regia di Corrado d’Elia, andato in scena al Teatro Libero di Milano.
La scenografia minimale è in perfetta sintonia con un impianto registico tradizionale ed essenziale, grazie al quale d’Elia ricostruisce un grande dramma psicologico, trovando nei silenzi e nelle attese della drammaturgia pinteriana terreno fertile per indagare la condizione alienante dell’uomo contemporaneo.
Nel seminterrato, su due letti, si trovano Ben, Francesco Maria Cordella, e Gus, Alessandro Castellucci, due sicari intenti a passare il tempo in attesa di un messaggio del mandante sul prossimo lavoro, l’uno leggendo un giornale, l’altro lucidando un paio di scarpe.
Il loro dialogo diventerà via via più concitato, fino a sfociare in una breve lite. Dalle loro parole emergono dettagli di uno stile di vita dominato da attesa, noia e dalla mancanza di una vera e appagante libertà.
C’è una buona dose di cinismo: per i due sicari uccidere è mestiere impegnativo solo perché bisogna essere sempre reperibili, ma presenta vantaggi innegabili dal momento che si lavora spesso un solo giorno la settimana.
Non un cenno a rimorsi, pentimenti o remore morali.
Due personalità quasi opposte: irascibile e risoluto Ben, chiacchierone e polemico Gus.
Mentre i due litigano e si concedono ironici battibecchi, dal piano di sopra giungono indizi, attraverso il calapranzi, sulla prossima vittima. Segnali incomprensibili al pubblico, senza un vero legame logico, che virano lo spettacolo verso il comico e il grottesco.
L’attesa prosegue, tra una tazza di tè, una tartina al limone e un giro e l’altro del calapranzi, reso in scena con un semplice secchiello in plastica azzurra.
Si delinea così una dicotomia di luoghi: da una parte la stanza, spazio claustrofobico e rassicurante in cui Pinter ambienta molte sue opere; dall’altra il mondo esterno, percepito come cupo e minaccioso dai protagonisti. Nel perimetro in cui essi si trovano a convivere sembra però scatenarsi anche una lotta per il controllo del territorio, altro elemento ricorrente nella drammaturgia del Nobel inglese.
Tra i due litiganti emerge un terzo elemento, la violenza: nelle parole pronunciate con rabbia da Ben, nei suoi moti d’ira, o nella sterile polemica di Gus, nella sua inerte vitalità. I muscoli dei due sono perennemente contratti; i loro gesti, in perenne tensione, dominano uno spazio angusto e cupo.
Alessandro Castellucci e Francesco Maria Cordella sono parte integrante della drammaturgia. La loro fisicità quasi contrapposta – alto e slanciato il primo, basso e tarchiato il secondo – è anch’essa linguaggio scenico.
In abiti scuri, anonimi come la vita che passano tra uno scantinato e l’altro, i due danno vita a una recitazione incalzante, che testimonia con il corpo un intenso dramma psicologico.
Le luci compaiono a congedo della pièce. Squarciano in extremis, attraverso l’occhio luminoso che incombe sulla testa dei due protagonisti, le tante zone d’ombra della nostra coscienza.
IL CALAPRANZI
di Harold Pinter
traduzione di Alessandra Serra
progetto e regia di Corrado d’Elia
con Alessandro Castellucci e Francesco Maria Cordella
assistente alla regia Marco Brambilla
assistente alle scene e grafica Chiara Salvucci
tecnico luci e audio Marcello Santeramo
produzione Compagnia Corrado d’Elia
durata: 1h 5’
applausi del pubblico: 3’
Visto a Milano, Teatro Libero, il 1° maggio 2016